C’è un’immagine di Ken Loach che a Cannes affiora sempre alla memoria non appena la presenza di un suo nuovo film è annunciata in concorso. Il regista inglese, seduto in un bar dalle parti del porto, con la sua squadra di collaboratori, avvolto da una nube di fumo quasi impenetrabile (all’epoca si fumava ancora nei locali pubblici), a seguire una partita di calcio su un televisore. Birra, urla, tifo. E i francesi che prendono in giro l’inglese perché la sua squadra è sotto di qualche gol. A ben vedere, il precipitato del mondo di Loach, lontano dalle discussioni cinefile e politiche. E quella sera, forse il suo film più bello. E ogni qual volta i suoi lavori negli ultimi anni parevano girare a vuoto, l’immagine di quella sera lontana si ripresentava come segno di un cinema che il regista inglese, pur avendo sempre il cuore al posto giusto, non riusciva più a fare.

E invece su questo nuovo film con il quale ha vinto la palma d’oro lo scorso maggio – Io, Daniel Blake – e che arriva domani nelle sale italiane, l’attenzione scatta subito dopo i titoli di testa, quando parte uno dei migliori dialoghi di sempre del cinema loachiano, quell’inconfondibile stridore fra umorismo disperato e indignazione, l’attenzione scatta subito e resta puntata saldamente sino alla fine del film. Lui è Daniel Blake. Un falegname che ha subito un infarto e vorrebbe il suo sussidio. La cosa difficile è passare attraverso la società paramedica (statunitense) cui il governo inglese ha appaltato la gestione dei lavoratori con disabilità.

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Loach è chiarissimo. Il sistema non è dalla parte dei lavoratori. Il sistema è dalla parte di se stesso. E questo si sapeva. Ci mancherebbe. Daniel, molto avanti con gli anni, deve compilare moduli on line, lui che non ha nemmeno un computer. E ovviamente il modulo scade sempre prima che lui riesca ad inviarlo. Le addette all’ufficio non possono e non devono aiutare i richiedenti in difficoltà. La Thatcher sarà pure morta, ma il suo sistema è vivo e vegeto. Daniel si trova quindi costretto a dimostrare di avere cercato lavoro ma, se cerca lavoro, non può avere diritto al sussidio.

Un comma 22 neoliberista. Loach ritrova il colore ambientale del suo cinema settantesco. I movimenti di macchina essenziali e le inquadrature attente a contestualizzare il conflitto nell’inquadratura con il fuori campo; una vividezza, finalmente di nuovo capace di graffiare, dovuta alla precisione con la quale il linguaggio diventa parte integrante della tessitura sonora del film, sono gli elementi formali che segnalano di una urgenza ritrovata. Il rapporto che Daniel ha con il suo vicino di casa che non ne vuole sapere troppo di differenziata dei rifiuti e che s’inventa, in perfetta coerenza neoliberista, un commercio di sneaker con un cinese innamorato perso di calcio britannico, coglie alla perfezione la riorganizzazione dal basso di ciò che resta della classe operaia britannica e del proletariato ormai privo di orientamento che non sia la sua mera sopravvivenza.

La presenza di Rachel, madre con figli a carico alla ricerca di un lavoro, pur inserendosi in un’idea di melò che ha in Chaplin e De Sica le sue punte più alte, offre a Loach la possibilità di tratteggiare con agghiacciante precisione il quadro di una nuova e atroce povertà. Costretta a servirsi delle cosiddette «food bank», ossia super market gestiti da volontari dove vengono distribuiti cibo e beni di prima necessità, tormentata dalla fame, Rachel letteralmente divora della frutta in scatola prima di iniziare a singhiozzare sconsolata, tramortita dalla vergogna per la sua condizione. Un momento altissimo, quasi insostenibile, lontanissimo da qualsiasi tentazione miserabilista, offerto con nitore e pudore documentario. In fondo è vero: si tratta del «solito» Loach.

Solo che il «solito» Loach con Io, Daniel Blake ha ritrovato la necessità delle sue opere migliori. Ed è grazie a film come Io, Daniel Blake che il Ken Loach amato una sera lontana in un pub di Cannes mentre seguiva una -partita di calcio, pensando ai tanti film di routine da lui macinati, torna a coincidere, quasi miracolosamente, con quella di un cineasta che in fondo ci è dispiaciuto non amare più con il trasporto tributato alle sue opere migliori.