Luigi M. Lombardi Satriani, figura di assoluto rilievo nel panorama delle Scienze antropologiche, compie ottant’anni. Nato in Calabria a San Costantino di Briatico (VV) nel 1936, da cinquant’anni risiede a Roma, dove ha insegnato discipline antropologiche all’Università La Sapienza e oggi ne è professore emerito. Ha basato la ricerca, d’ispirazione gramsciana, d’ispirazione gramsciana, sullo studio del folklore, della religiosità popolare e della cultura contadina. Preside e docente della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Ha insegnato presso gli atenei di Messina, Napoli, Austin (Texas), San Paolo (Brasile). È stato Senatore della Repubblica (1996/2001) e ha preso parte alla Commissione Cultura Senato e alla Commissione Bicamerale contro l’organizzazione mafiosa e altre realtà criminali. È presidente onorario dell’Associazione Italiana per le Scienze Etno-antropologiche. Dirige «Voci. Semestrale di Scienze Umane». È un intellettuale che influenza il dibattito accademico italiano e internazionale con le proprie tesi. Il 2016 è stato un anno proficuo di riconoscimenti. Ne discutiamo con lui.
Nel 2016 due importanti riconoscimenti: la laurea honoris causa in Filologia moderna conferita dall’Università della Calabria e il premio «Giuseppe Cocchiara» ricevuto all’Università di Messina. Cosa rappresentano per te?
Sono per me fonte di profonda soddisfazione, di orgoglio, di rivisitazione critica del mio passato. Ricercare, leggere, studiare, sono stati delle costanti della mia vita al punto tale che, ancora adesso, se chiudo una giornata senza aver dedicato del tempo a queste attività mi sembra che l’intera giornata sia stata del tutto sprecata. Mi rendo conto che non è questa la temperie culturale dominante, e quindi può sorgere il sospetto di essere stato io a sprecare la vita. Questi riconoscimenti invece mi inducono a pensare che questo sospetto sia infondato, perché le cose che ho detto, ho insegnato, ho scritto, non sono state del tutto inutili, hanno comunque prodotto qualcosa.
Ernesto de Martino ha rinnovato lo studio e la ricerca antropologica. C’è ancora bisogno di tali figure?
Sicuramente ce n’è ancora bisogno. Ernesto de Martino infatti, come tu stesso ricordi nella domanda, è stato un innovatore della ricerca antropologica, sia per la connessione che marxisticamente pone tra dato culturale e condizione economico-sociale, sia per la pratica di una ricerca interdisciplinare (anche se, in fondo, egli poneva il suo approccio come egemonico, rendendo di fatto gli altri complementari e subalterni). Non mi sembra però che dobbiamo pensare a de Martino facendone una sorta di «santino» cui tributare un doveroso e distratto culto. A mio avviso l’antropologo oggi deve accettare la sfida della contemporaneità. Confrontarsi cioè con i fenomeni che la vita quotidiana ci pone dinanzi con drammatica evidenza: penso, anzitutto, all’immigrazione di massa che vede fuggiaschi dall’Africa, che cercano nella nostra società riparo dalle violenze della guerra e delle persecuzioni, trovando molto spesso la fine nelle acque del Mediterraneo, gigantesco cimitero nel quale giacciono sommerse ecine di migliaia di speranze e di sogni irrealizzati. Oggi l’Altro è qui dinanzi a noi (noi siamo l’Altro) e l’altrove non è in un Paese da visitare, ma a noi sempre più prossimo. È necessario, pertanto una revisione radicale dei nostri strumenti metodologici e del nostro quadro epistemologico. Oggi più che mai è tempo di mutamento, anche per il lavoro di antropologo.
Il tema della morte, affrontato nel saggio «Il ponte di San Giacomo» e scritto con Mariano Meligrana, costituisce un topos di differenziazione culturale tra mondo rurale e mondo industriale. Questi due universi, come hanno reagito e come reagiscono oggi di fronte al concetto e all’immagine della morte? Perché in una società ipertecnologica la cultura della morte è rimossa?
La società attuale, con la sua ricerca ossessiva delle apparenze, il suo edonismo di massa, si sviluppa tendenzialmente più nel segno della rimozione dell’immagine della morte, organizzando, si potrebbe dire, una gigantesca estroversione collettiva. Anche se non si possono tacere tratti significativi che mostrano come anche nelle grandi città, e soprattutto tra le più giovani generazioni, sono presenti processi di oltrepassamento della morte attraverso il ricordo e la riaffermazione delle ragioni della vita. In linea generale però il mondo tradizionale che Mariano Meligrana e io abbiamo indagato per decenni, il sui esito critico si è concretato prevalentemente nel nostro «Il ponte di San Giacomo». Esso testimonia l’articolata strategia che questo mondo ha posto in essere, per non farsi sopraffare dall’evento luttuoso della scomparsa della persona cara, e per alimentare una religione del ricordo che restituisca titolarità del discorso a questa persona rendendo possibile ancora il colloquio. Teniamo infine presente che, come ha sottolineato Mariano Meligrana, «arcaico» non significa inesistente ma che è il fondo della storia, la realtà vitale che si ramifica in innumeri forme.
Qual è il tuo modus operandi per entrare in contatto con le persone e gli informatori? Parlo in particolare dello studio scientifico-antropologico su Natuzza Evolo di Paravati, la più conosciuta mistica stigmatizzata italiana del Novecento.
Assumendo le persone come soggetti con cui instaurare un rapporto radicalmente paritetico ed empatico, pur nella consapevolezza della diversità di ruolo e di funzioni. Per gli informatori non ritenendoli in maniera predatoria fornitore di «dati» anche perché credo che dovremmo incominciare a chiamare questi elementi relativi al nostro campo di indagine non «dati» ma «presi». Anche con Natuzza Evolo ho cercato, nel lavoro condotto con Maricla Boggio (filmato televisivo e successivo volume) di attenermi a questo principio e ricordo on gratitudine le parole da lei rivoltemi intrise di modestia e sollecitudine.
Il culto e la sacralità nel Meridione sono stati spesso oggetto delle tue ricerche sul campo. Nella società contemporanea è mutato il rapporto col sacro?
Questo rapporto è sicuramente mutato ma, a mio avviso, mutati sono i tratti con cui si presenta, non la radicale esigenza di sacro. Troppo spesso abbiamo parlato di «eclissi» del sacro, salvo poi a farci sorprendere da clamorosi «ritorni». Tanto più questo rapporto è presente dato lo straordinario successo anche nell’ambiente laico e di non credenti della figura e delle prese di posizione di papa Francesco.
Nei Quaderni del carcere, Gramsci evidenzia l’esigenza di studiare il folklore come concezione del mondo e della vita delle classi subalterne in contrapposizione alle classi egemoni. Partendo da tali osservazioni, hai maturato a metà degli anni Sessanta l’idea di intendere il folklore come cultura di contestazione, tant’è che il tuo primo saggio è «Il folklore come cultura di contestazione», pubblicato nel ’66. Quali sono i passaggi essenziali di tale concezione?
Accanto a questo saggio vorrei ricordare l’articolo «Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione», pubblicato su «Critica marxista» (1968) in risposta a delle critiche rivolte alla mia posizione. In tali scritti parto dalle Osservazioni di Gramsci per svilupparle individuando diversi livelli contestativi, a seconda che inducano alla ribellione o all’accettazione dello status quo. Ho parlato poi di un livello di mera contestazione implicita o per posizione, e di un’ulteriore livello di accettazione della cultura egemone. Questo orientamento teoricometodologico è stato spesso banalizzato e appiattito nella generica formula contestativa.
In un passaggio della Lectio per il Premio «Giuseppe Cocchiara» citi Pasolini: «Solo nella tradizione è il mio amore», verso tratto da «Poesia in forma di rosa». Secondo te, il genocidio culturale e l’omologazione, ovvero le feroci critiche al sistema consumista e al totalitarismo massmediatico che in tempi non sospetti Pasolini scriveva e argomentava, si sono sviluppati in tutta la loro brutalità?
Indubbiamente tale sviluppo degenerativo si è realizzato e lo constatiamo quotidianamente nel bla bla mass mediatico contemporaneo. Pasolini, di cui ricordo de visu alcuni suoi illuminanti interventi, con il suo culto della memoria e il suo atteggiamento radicalmente ereticale, è stato contemporaneamente lucido profeta e narratore dell’avvento di un mondo brutale che aveva fatto sparire le lucciole in nome di una volgarità e di una bruttezza sempre più imperanti. La sua vita e la sua morte testimoniano tutto ciò.
Perché intellettuali/studiosi scomparsi prematuramente, come Annabella Rossi e Pino Simonelli, sono imenticati dagli antropologi, dagli accademici? Cosa rimane proficuo della loro produzione scientifica e del loro insegnamento? Cosa si può fare per farli conoscere, studiare dalle nuove generazioni prima dell’oblio?
Questi che ricordi sono figure a me care con le quali ho avuto rapporti profondi e proiettati nel tempo di collaborazione e amicizia. Ambedue erano trasgressivi rispetto alla cultura accademica ufficiale e ai valori
dominanti; ma complessivamente considerate sono però figure la cui produzione è molto diversa: Annabella Rossi ha al suo attivo grosse monografie antropologiche e ha insegnato per anni nell’università di Salerno lasciando frutti non episodici (penso ad Enzo Esposito oggi docente di Storia delle Tradizioni popolari, ne perpetua con rigore l’insegnamento e il ricordo critico); Pino Simonelli, anche perché scomparso in più giovane età, ha potuto pubblicare solo alcune testimonianze letterario-poetiche. Solo recentemente, un volume pubblicato a Napoli ha presentato la poliedricità della sua figura e della sua produzione. Per fare conoscere queste figure, certamente valide, non vedo altra via che diffondere quanto più possibile le loro parole, i loro scritti, parlandone e riscoprendone volta a volta i molteplici significati.