«Ho trovato un altro paio di erroretti di stampa, tra cui uno è solo una virgola che manca; ma non te la prendere, perché adesso tutti i libri e le riviste più reputate formicolano di errori di stampa. Infine, io personalmente avrei preferito la distinzione degli accenti acuti e gravi; tu non la ami: pazienza».

Così Leone Ginzburg a Franco Antonicelli in una lettera dell’8 aprile 1943 che Luca Baranelli cita in «Compagni e maestri», da poco in libreria per i tipi di Quodlibet.

Al nome di Ginzburg si aggiungono, a comporre il libro e a giustificarne il titolo, quelli di Raniero Panzieri, Sebastiano Timpanaro, Italo Calvino, Renato Solmi, Piergiorgio Bellocchio, Gianni Sofri.

Tre anni orsono Baranelli e Francesco Ciafaloni pubblicarono presso Quodlibet, «Una stanza all’Einaudi» dove i due autori, diretti e partecipi testimoni, raccontano vicende che, nel corso di vent’anni, hanno contrassegnato la storia della casa editrice torinese.

Baranelli, redattore alla Einaudi dal 1962 al 1985, scrive: «Chi ha lavorato nell’editoria quando essa era un ‘mestiere’ che aveva una forte componente artigianale e prevedeva molteplici competenze e mansioni, ha sicuramente acquisito, fra le altre cose, l’abitudine a documentarsi nel modo più possibile esatto (anche su argomenti noti o presunti tali), a usare una prosa concreta, precisa e stringata, ad affrontare con rigore e chiarezza argomenti molto diversi».

Se è possibile misurare la cultura critica di un paese dalla attenzione che dedica alla esattezza e precisione della lingua, essa non può non cercare nella forma libro una consistenza non provvisoria e trovare, proprio nella sua effettiva realizzazione, una verifica della sua tenuta.

Il compito dell’editoria, allora, afferisce ad una responsabilità, oltre che culturale o di informazione, eminentemente civile: deve darsi e rispondere a regole improntate alla minuziosa cura dei testi imposta, prima di tutto, dal rispetto dovuto al lettore.

La ‘presenza’ del lettore e la sua identità esigono che l’editore realizzando il libro, ne assicuri, per dir così, la ‘presenza’, ne garantisca l’‘integrità’. Per questo, «grande rilievo assume la quotidianità del lavoro redazionale, che – come accade per Ginzburg, dice Baranelli – non è mai routine, neppure nelle ‘minuzie tipografiche’, ortografiche o d’interpunzione».

Baranelli, appena assunto all’Einaudi, impara «ad apprezzare questi aspetti grafici e tipografici. C’era una grande attenzione per l’impaginazione, per la giustezza della linea e quindi per i margini».

Italo Calvino, a lungo applicato al lavoro editoriale presso Einaudi, «aveva contribuito a creare quell’immagine e quell’aura, fatte di rigore intellettuale e di impegno civile, che avevano portato tanti lettori alla casa editrice». E Gianni Sofri, riporta Baranelli, testimonia di come Italo Calvino: «sottoponesse a un vaglio minuzioso e implacabile qualsiasi pezzo (note, cappelli, brevi introduzioni) che gli veniva sottoposto per l’approvazione e la stesura definitiva».

Così «Maestri e compagni», nella forma d’una ideale conversazione tra sodali che mai si è interrotta oltre i luoghi e gli anni, contiene un suo sotteso «fabula docet» che tutta la trascorre. Baranelli mostra quanto essenziale alla formazione di una coscienza civile sia quel libro nel quale, argomenta Calvino, la parola – «questa cosa molle informe» – diviene scrittura, «qualcosa di esatto e di preciso».

Un compito che, continua, «può essere lo scopo di una vita. Soprattutto quando si vede un deterioramento, quando si vive in una società in cui la parola è sempre più generica, povera».