È nato a New York , ma adesso vive in Calabria Jonas Carpignano, regista italoamericano – padre romano, madre afroamericana – classe 1984 che abbiamo visto alla Semaine de la Critique di Cannes con il suo Mediterranea, proiettato oggi al Festival di Monaco nella sezione International Independents. In Calabria ci è arrivato nel 2010, quando è scoppiata la rivolta dei migranti a Rosarno: «la prima volta – dice – che una comunità di migranti è scesa in piazza contro le ingiustizie che subiva». E il suo Mediterranea racconta proprio questo: l’epopea di Koudous, che dal Burkina Faso attraversa il deserto per poter salpare verso l’Italia e approda nella piana di Gioia Tauro, dove lavora raccogliendo arance per pochi spiccioli l’ora. L’umanità che lo circonda ha tutte le sfumature del grigio: il piccolo contrabbandiere Pio, per sopravvivere smercia e ricompra telefonini, lettori mp3 ed ogni genere di oggetto; la famiglia che lo fa lavorare illegalmente ma lo accoglie tra le mura domestiche; la gente del paese e la sua ostilità; i compagni di avventura vittima delle stesse frustrazioni e della stessa nostalgia di casa. Quello che doveva essere un breve lavoro sui «riots» è diventato un film, anche se la sua prima manifestazione è proprio un cortometraggio, A Chijana, passato a Venezia nel 2011 a Venezia dove si affrontava – spiega il regista – «ciò che si prova durante e soprattutto dopo una rivolta del genere, il momento in cui ci si chiede se ne sia valsa la pena, se si siano ottenute le cose per cui è iniziata». L’anno scorso, sempre a Cannes, Carpignano ha portato un altro corto – A Ciambra – il preludio di un lungometraggio che ha intenzione di dedicare al piccolo Pio, il bambino che rifornisce buona parte di Rosarno di beni assortiti di dubbia provenienza.
Spunti, persone e momenti di vita vissuta a comporre quel lavoro originalissimo nel panorama italiano che è Mediterranea, a metà tra il documentario – i protagonisti sono proprio i diretti interessati e le loro esperienze – e il film di finzione la cui sceneggiatura si scrive giorno per giorno, con uno stile che Carpignano chiama guerrilla filmmaking.

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Cosa intende con questa definizione? 

L’idea era girare un film non convenzionale. Riguarda dei migranti «clandestini», che ovviamente sono difficili da assumere, ed è già un conflitto. Non volevo essere costretto ad andare a Roma per fare un casting e portare in Calabria le stesse quaranta facce che si vedono ogni volta che in un film italiano c’è una persona nera. Per cui abbiamo dovuto stabilire le nostre regole e percorrere un sentiero diverso, e di conseguenza privarci di molte delle cose che servono ad una produzione normale. Ci siamo inventati dei modi per aggirare gli ostacoli mano a mano che andavamo avanti, in modo spesso non molto professionale. Ma ciò che ci manca in esperienza e praticità lo recuperavamo attraverso il desiderio di fare le cose bene.

Anche dal punto di vista produttivo il film è anticonvenzionale.

Ho avuto la fortuna di partecipare al Sundance Lab: sono stati loro ad aprirmi il mondo della produzione indipendente. Se non fosse stato così sarei probabilmente andato al Ministero ed avrei seguito la trafila tradizionale. Ripensandoci però non avrebbe funzionato: i soldi dello Stato ti obbligano a rispettare molte regole, a rendere conto a qualcuno. Cercare e mettere insieme i soldi da soli, seguendo il modello del cinema indipendente americano, ci ha dato invece la libertà di fare quello che volevamo e di lavorare con chi preferivamo: italiani, francesi, africani, americani…

Come ti sei messo sulle tracce del percorso che porta dall’Africa in Italia, e poi proprio in Calabria? 

Ho fatto il percorso io stesso partendo dal Burkina Faso, passando per il Mali e cominciando a fare la traversata a piedi del deserto. A Timbuktu ho incontrato molte persone con cui ho continuato la strada, ma poi mi sono dovuto fermare al confine algerino perché le cose si sono fatte troppo pericolose. Per cui sono tornato in Italia e l’anno successivo sono andato in Libia, che è il posto in cui è più semplice raccogliere delle storie su questa esperienza, di cui mi sono servito per riempire le parti di tragitto che non avevo potuto fare in prima persona. Date le mie radici, ho sempre voluto fare un film sulle questioni razziali in Italia. Poi i «riots» di Rosarno mi hanno spinto ad andare lì, dove ho trovato un gruppo di persone disposte a confrontarsi, che non erano spaventate a parlare di ciò che stava succedendo.

Il film è a metà tra documentario e finzione. 

Più di ogni cosa è una collaborazione: sentivamo di stare facendo un lavoro insieme. Anche scrivendo la sceneggiatura utilizzavamo delle cose che ci succedevano quotidianamente e che trovavamo emblematiche dell’esperienza in Calabria. Ad esempio, la scena in cui un ragazzo da una pacca sul sedere ad una delle donne nere, scatenando una rissa, ci è successa davvero due anni fa. E la persona che lo fa nel film è proprio quella di quel giorno: in seguito si è scusato ed ora siamo amici. Abbiamo cercato di fare in modo che la vita entrasse nel film, che rimodellavamo giorno dopo giorno.