Sino al Settecento, ed oltre, si credeva che l’utero femminile fosse un animale vagante all’interno del corpo, capace di scatenare nella donna crisi isteriche che conducevano sino alla morte: a che razza di animale si pensava? Altri, invece, lo assimilavano alla testa della Gorgone Medusa: in virtù di quale ascendenza comune?

Sono solo alcune delle immagini dell’anatomia fantastica che, per millenni, ha accompagnato la percezione di questa «fucina di maturazione» della vita umana, come ebbe a definirla Filone Alessandrino nel suo De Opificio Mundi.

L’utero, in verità, non è mai stato considerato, neanche dal punto di vista strettamente anatomico, un organo come tutti gli altri. Da quando l’attenzione dell’umanità si è concentrata sul mistero della forma corporis, sia che esso fosse studiato come riassunto della più vasta creazione macrocosmica, sia come quintessenza della stessa perfezione divina, l’imago uteris ha avuto una storia a se stante, una vera e propria epopea anatomica che lo isola, per così dire, dal resto del corpo, proprio a cagione del suo riconosciuto ruolo nella procreazione.

Oggi, nell’universo unidimensionale dello scientismo più razionalista, vediamo nell’utero solo un viscere cavo, piuttosto prosaico, con delle spesse pareti muscolari, albergato nello scavo pelvico tra il retto e la vescica: a dire che se fosse un bene immobiliare varrebbe certamente poco così collocato in una zona alquanto periferica e malsana rispetto, ad esempio, ad altri organi ben più «elevati», il cuore, il cervello. Eppure, se proviamo a ripercorrerne la storia per immagini, ritroviamo il fascino di certe analogie anatomiche che, anche se non precise dal punto di vista scientifico, ci riportano a suggestioni allusive, contenenti ancora tutto il mistero irrisolto, e forse irrisolvibile, di questa fucina della vita.

Nerone e la forma dell’utero

Si dice che Nerone, dopo aver fatto uccidere la madre Agrippina, ne predisponesse l’autopsia volendo vedere «il luogo da quale proveniva». Un quadro di Giovanni Battista Pittoni del 1715, attualmente appartenete ad una collezione privata, raffigura la scena: il corpo è steso sul tavolo settorio aperto dal bisturi del cerusico, mentre Nerone è ritratto nell’atto di avvicinarsi per guardare. Non sappiamo se questa curiosità uterina fosse realmente la cagione del gesto ma, come ci riporta Tacito negli Annales (XVI, 9), certo è che l’Imperatore osservò il corpo aperto della madre e ne lodò la bellezza, facendolo subito dopo cremare. Tacito ci riporta l’episodio, intriso di necrofila incestuosità, ricordando che un oracolo caldeo aveva già previsto tutto questo ad Agrippina, che però rispose al fato con la celebre frase: «Mi uccida, purché regni!».

Certo non le mancava l’affetto materno; eppure, da personaggio inquietante ed intrigante qual era, si narra che al momento del suo assassinio, perpetrato da sicari armati di pugnali e spade, dopo altri più raffinati ma infruttuosi tentativi di toglierla di mezzo, abbia indicato ai suoi esecutori proprio quell’utero che aveva partorito il figlio degenere: «Qui, qui colpisci!», infatti, pare siano state le sue ultime parole, sempre secondo Tacito, mentre indicava agli uccisori di infierire sul basso ventre. Ma, ammesso che l’Imperatore abbia realmente voluto osservare l’utero materno, cosa avrebbe visto? Come si sa, l’osservazione di ciò che giace sotto i nostri occhi non è in realtà così facile, come ci ricorda opportunamente l’aforisma di Goethe: «Nulla è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che abbiamo sotto gli occhi». Questo accade perché ci sono delle formae mentis, dei pregiudizi, che costringono lo sguardo in canali predefiniti, e ciò vale in ogni epoca storica.

Al tempo di Nerone, ad esempio, la percezione riguardo all’utero era fortemente influenzata dalla descrizione che ne aveva fatto il grande Erofilo di Alessandria, personaggio importante della medicina antica, un anatomista che studiava il corpo attraverso la dissezione diretta. Di lui porta ancora il nome il cosiddetto «torculare», una formazione alla base del cranio alla quale fanno capo i grossi seni venosi della dura madre encefalica. Chi scrive ricorda ancora quando, studente di medicina, durante i lunghi mesi dedicati all’esame di anatomia umana normale preparato sul poderoso Testut-Latarjet, si aprivano le discussioni storiche intorno a questo buffo nome che veniva da un tempo lontano.

Ebbene, come aveva descritto il Maestro antico la formazione uterina? La sua visione era quella di una matrice dedita al body building, che in quel tempo era possibile ritrovare nei piccoli ex voto di argilla che le donne romane offrivano alle varie divinità che sovraintendevano la fertilità, la gravidanza ed in fine il parto: un piccolo cilindro, cinto però da una serie di anelli o fasce muscolari molto sviluppate; strutture in realtà non esistenti ma che, nondimeno, venivano rappresentate come reali, perché descritte dal grande medico.

D’altra parte un altro anatomico, Sorano d’Efeso, vissuto in Alessandria, e più tardi a Roma nella prima metà del secondo secolo dopo Cristo, citando il suo collega Diocle di Caristo descrive, per contestarla, la teoria che all’interno del corpo uterino vi fossero addirittura delle protuberanze, simili a piccole mammelle, che appunto servivano al feto per allenarsi alla suzione. Questa era una visione totalmente scollegata dalla realtà anatomica, ma molto radicata nella visone degli antichi, tanto che ne troviamo accenni indiretti anche negli Aforismi di Ippocrate.

Per fortuna il primo che la negò con convinzione ed autorevolezza fu il grande Aristotele, precursore di ogni scienza empirica, cioè basata sui fatti, che smentiva radicalmente questa affermazione nel suo Riproduzione degli animali motivandone la falsità con la palese constatazione che il feto è separata dall‘utero per via del sacco amniotico. Tornando a Sorano, contemporaneo di Galeno, egli fu il medico più illustre della scuola che fiorì a Roma al tempo di Traiano e di Adriano, forse proprio quel medico che lo visita nelle prime pagine dell’indimenticabile Memorie di Adriano della Marguerite Yourcenar. Ma, al di la di questo, Sorano fu il fondatore della ginecologia e dell’ostetricia scientifica.

I suoi scritti, fra i quali il più celebre titola proprio Delle malattie delle donne (Περὶ γυναμείων παϑῶν), furono considerati testi di riferimento fino al Rinascimento e ad essi si ispirarono largamente tutti gli studiosi latini e bizantini. Quantunque, come abbiamo visto, la sua anatomia del sistema genitale femminile fosse ancora molto approssimativa e contenesse diversi errori, pure vi sono molte indicazioni che derivano da uno studio esatto del corpo. Il libro, dedicato fondamentalmente alle ostetriche, dà precise indicazioni terapeutiche e profilattiche: tra l’altro si consiglia, ad esempio, il taglio dell’ombelico con la legatura doppia, si prescrive il lavacro degli occhi al neonato con olio, si danno le norme per la fasciatura del bambino e per l’allattamento e lo svezzamento. Anche nel campo degli interventi ostetrici si notano indicazioni per l’epoca molto avanzate: la difesa del perineo durante il parto ed il rivolgimento intra utero del feto in caso di posizione distocica.

Altra visione fantasiosa era quella che, al tempo, voleva la cavità uterina divisa in veri e propri scomparti, generalmente sette, tre a destra, tre a sinistra, ed uno al centro. Questa idea di una partizione uterina era talmente forte che si è prolungata sino al Medioevo, quando si pensava che le cavità a destra fossero riservate agli embrioni maschi, quelle a sinistra alle femmine e quella mediana… agli ermafroditi. Di conseguenza, se si voleva avere un figlio maschio si doveva giacere sul fianco destro durante il coito, e viceversa per le femmine; addirittura in pieno Rinascimento la credenza anatomica, unita alla «medicina umorale» di ascendenza aristotelica che imperava a quel tempo, aveva coinvolto pratiche come il legamento dei testicoli contro-correlati, cioè il destro se si voleva una femmina ed il sinistro se si cercava il maschio.

Il fatto che le cavità uterine fossero sette, e non semplicemente una o due, ci rende ragione di quella visione che sino all’Illuminismo collegava strettamente microcosmo umano e macrocosmo universale. Il significato cosmologico del numero sette è noto e dunque il «contenitore della vita», l’utero, non poteva che riprodurlo in qualche modo. Anche il seme aveva bisogno di sette giorni per cominciare a svilupparsi in embrione, così come le mestruazione duravano sette giorni, e solo a partire dal settimo mese il feto poteva sopravvivere fuori dall’utero così come il settimo giorno era quello risolutivo per le malattie acute, e via enumerando.

Ultima testimonianza antica, che cerca di tenere insieme la concezione settenaria del cosmo con quella dell’anatomia uterina, è del filosofo Nicomaco, vissuto in Arabia nel secondo secolo dopo Cristo, il quale sosteneva che, siccome l’eiaculazione era composta da sette zampilli, era perfettamente logico che la cavità uterina potesse ospitare sette feti in altrettante cavità.

Un organo itinerante

Ancora più intriganti delle immagini legare all’anatomia interna uterina, sono quelle relative al fatto che quest’organo fosse itinerante all’interno del corpo femminile; che cioè non avesse una fissa dimora ma, al contrario, prendesse posizione in varie parti dell’addome. La credenza è molto diffusa nell’antichità e, come ci dice F. Gonzáles Crussí nel suo argutissimo e ben documentato Organi vitali: «L’origine di questa strabiliante concezione non è conosciuta, la si ritrova nell’immaginario popolare già alcun tempo prima che illustri filosofi affrontassero l’argomento».

E tuttavia l’origine della perturbante immagine sembra essere nientemeno che Platone il quale, nel Timeo (91 c) afferma: «Nelle donne la cosiddetta matrice e la vulva somigliano a un animale desideroso di far figli, che, quando non produce frutto per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo e chiudendo i passaggi dell’aria e impedendo il respiro, getta il corpo nelle più grandi angosce e genera altre malattie di ogni specie».

E dunque, per il grande filosofo delle idee, la matrice che «non produce frutto» nel momento giusto andrebbe raminga per la cavità splancnica generando quell’insieme di variegati fenomeni, vere e proprie sindromi dunque, che per secoli hanno avuto l’allusivo nome di «isteria» termine che, com’è noto, deriva appunto dalla parola greca per utero. Questo aspetto ipercinetico verrà per così dire documentato da Areteo di Cappadocia che, intorno al secondo secolo dopo Cristo nel suo Delle cause, dei segni, e della cura delle malattie, nel paragrafo dedicato appunto all’isteria dice: «Nel bel mezzo della regione iliaca della donna è posto l’utero, viscere femminile cui, forse non a torto, si attribuisce somiglianza con un animale. Muovesi or qua or la verso gli ilei… ora a destra ora a sinistra, ora verso il fegato, ora verso le intestina. Però la sua naturale inclinazione è verso le parti inferiori: per dirla con brevi parole è una natura mobilissima, erratica e bizzarra… sicché nella specie umana può dirsi che l’utero è come un animale vivente dentro un altro».

Altro che «donna mobile qual piuma al vento», qui l’organo matriciale diviene sineddoche di una visione della donna che per certi versi ancora perdura, non solo nel sentire comune, ma anche nella scienza. E dunque, quando l’utero «mobilissimo, erratico e bizzarro», decide di migrare verso le vie respiratorie, la paziente subisce un attacco di soffocamento che scatena la sempre latente isteria.

Gonzáles Crussí ci ricorda che questo quadro nosologico, il «soffocamento della matrice» come sintomo scatenante della temutissima crisi isterica, viene riportato nei testi di medicina sino al diciottesimo secolo. Sarebbe interessante dare conto dei metodi, vari e spesso strampalati, con cui si cercava di ricondurre al suo posto l’animale riottoso. Uno per tutti, quello sovrano che riconduceva naturaliter l’utero errante alla sua collocazione pelvica era, ovviamente, il coito.

Che animale è?

Ma se l’utero è paragonata ad un «animale vivente dentro un altro animale vivente», che bestia è? Anche qui, come tutto ciò che è legato al corpo femminile in generale, ed all’apparato riproduttore in particolare, le analogie risentono delle epoche e degli archetipi più radicati in merito alla sessualità della donna: attrazione e repulsione, stupore e paura, vita e morte, erotismo e continenza, si mischiano inestricabilmente per creare una galleria di paragoni fantastici, un vero e proprio bestiario chimerico che parte dal mondo animale, pesci in particolare, per arrivare a comparazioni tratte dalla mitologia.

I pesci abbiamo detto: ancora oggi nei testi di ginecologia, la parte dell’utero che sporge in vagina reca una apertura che è detta «muso di tinca», cioè di un pesce di acqua dolce. Ma la tinca non esaurisce certo la varietà ittica. Un paragone molto comune, infatti, è con il polipo, sia a cagione della forma della sua testa, paragonabile a quella dell’utero, interpretazione di Sorano, sia per le varie ventose che venivano attribuite al suo interno, i cosiddetti «cotiledoni» descritti anche da Galeno. Questo termine è ancora in uso per indicare i lobi tra cui è divisa la placenta. Anche l’originale paragone con una ventosa, che troviamo inscritta su molti talismani greci e romani per favorire il parto, viene così progressivamente sostituita dall’effigie di un polipo.

Nei Musei Capitolini, all’interno della collezione Santarelli, è possibile osservarne uno di pregevole fattura in cui il corpo uterino a forma di ventosa si arricchisce di tentacoli polipoidi. Non solo le due forme anatomiche sono analoghe, ma la capacità di spostamento del polipo può essere assimilata a quella dell‘utero errante all’interno del corpo femminile, così come, e qui entriamo nel campo dell’immaginario collettivo, la forza strangolatrice dei suoi tentacoli può ben essere paragonata a quel «soffocamento dell‘utero» che abbiamo detto essere la cagione dell’isteria. E dato che la cura spesso deriva dal male stesso, nell’antichità medica non poteva mancare, per una corretta alimentazione della gestante, una dieta a base di polipo, adatta ovviamente pure in caso di infertilità.

La testa di Medusa

Infine l’analogia più sorprendente, ma in fondo riassuntiva, metaforica di quel coacervo di pregiudizi, pulsioni, osservazioni pseudoscientifiche, anatomie fantastiche e via enumerando, che abbiamo parzialmente descritto: il paragone tra il nostro organo mobile e la testa di Medusa. Si proprio lei, la spaventevole Gorgone con la capigliatura serpentina, capace di pietrificare chi la guardasse negli occhi; l’essere, in fondo tragico, sconfitto da Perseo con la sua stessa arma.

Sempre presso i Musei Capitolini, nella collezione Santarelli, è visibile un amuleto cammeo pro parto, con testa di Gorgone. Da dove nasce l’analogia? Naturalmente dal mito. Si perché l’anguicrinita, secondo Ovidio, ma anche secondo Pausania, era in origine donna di una bellezza abbagliante che, a seguito degli amori con un dio, Poseidone secondo le Metamorfosi, o come capo del suo popolo poi sconfitto, secondo il periegeta, era stata poi trasmutata in mostruosità.

Ovidio, infatti, ce la descrive come sacerdotessa di Minerva. Di lei si innamora Poseidone che la prende e poi, ovviamente, sparisce. Gli dei sono rapinosi, non amano: si invaghiscono, possiedono, stuprano, non fanno l’amore. E così la povera Medusa viene punita in modo crudele da Minerva per aver rotto il giuramento di verginità. Qui abbiamo già un dato analogico significativo: la punizione per la trasgressione ad un interdetto sessuale. L’interdetto è uno dei fondamentali psichici della potenza erotica che, come dice Bataille: «Oltrepassa l’interdetto senza però sopprimerlo»; un po’ come alzare la sbarra di un confine che però rimane, ed anzi, viene corroborato proprio da questo gesto. Ed infatti, nel caso di Medusa, lei viene punita, mentre Poseidone torna bellamente al suo mondo subacqueo.

Per Pausania, invece, Medusa era una splendida principessa che combatté alla testa delle sue truppe libiche l’invasore Perseo. Caduta in una imboscata l’eroe le tagliò la testa, non per crudeltà, ma perché i suoi compagni rimanessero impietriti dinanzi alla sua bellezza. Ultimo, ma non per ordine di importanza, un’interpretazione del mito di Medusa vuole che il sangue che sgorgava dalla sua testa recisa fosse paragonabile a quello mestruale. Aristotele, ad esempio, sostiene che lo sguardo di una donna mestruata può lasciare macchie di sangue su di uno specchio.

Ma qui si apre una altro capitolo della fisiologia fantastica che ci porterebbe ancora più lontano di quanto abbiamo sino ad ora condotto il lettore, sull’onda di questo rutilante fluido della vita.