Dei libri e finanche del nome dello scrittore abruzzese Mario Pomilio (1921-1990), se non sbagliamo, si erano da tempo perse le tracce, se si escludono un paio di articoli pubblicati a dieci anni dalla morte (uno di Giulio Ferroni, l’altro di Andrea Cortellessa) e la raccolta delle poesie curate dal figlio Tommaso, e specialmente restava tutto da capire e da decifrare il destino di un romanzo a suo modo leggendario come Il quinto evangelio, apparso per la prima volta presso i tipi della Rusconi nel bel mezzo del decennio dei settanta, proprio nel febbraio dell’indimenticabile 1975, opera già pronta, e ancor prima di venire stampata, a diventare un caso giornalistico – oggi si direbbe un evento – oppure e inoltre essa stessa una sorta di medium ossia un pretesto, un’occasione di molte discussioni intorno alla rinascenza di una grande letteratura di sostanza e di ispirazione cattoliche, quasi che quello fosse il problema essenziale, la questione su tutte rilevante rispetto a un testo di ardita e avventurosa fattura, mobilissimo e frastagliato nella struttura e ricco all’inverosimile in quanto a cifre stilistiche, in specie per un autore che non si tirava indietro nella polemica, da posizioni «conservatrici», con i teorici della neoavanguardia (ad esempio Angelo Guglielmi). Pure, occorre subito aggiungere, si trattava di un equivoco a metà o, se si preferisce, di un malinteso inciso fin da subito nelle tensioni e contrapposizioni dell’epoca, uno stigma insomma del dibattito culturale d’allora.
La casa editrice milanese di via Vitruvio rappresentava di sicuro, a viso aperto e senza infingimenti, uno spazio di resistenza e di reazione a quella che già allora (e, più inspiegabilmente, oggi ancora) veniva chiamata l’egemonia culturale della sinistra, e mediante quel marchio molti impararono a conoscere la cultura di destra, apocalittica, paganeggiante, agnostica o cristiana che fosse (non solo – qui ricordati alla rinfusa – Augusto Del Noce e Cornelio Fabro, Orsola Nemi e Cristina Campo, Rodolfo Quadrelli e Guido Ceronetti, Quirino Principe e Rosario Assunto, Carlo Alianello e Giuseppe Prezzolini, ma persino le grottesche requisitorie di Armando Plebe intorno a quello che non aveva capito Marx). Le opere di Pomilio pagarono più tardi a causa di quel vessillo e marchio di fabbrica, e Il quinto evangelio (che pure, e non a caso, raggiunse in sei anni la bellezza di diciotto ristampe) venne rimosso, dimenticato, lasciato cadere in un oblio immeritato e, nel merito, impertinente.
Non era affatto equivoca, invece, la soglia, oltrepassata la quale lo scrittore avvertì l’urgenza e la necessità di un romanzo che segnalasse il clima di temperie propositiva, l’irrequietezza e, di più, l’impazienza (che è parola-chiave qui) del credente dopo il Concilio Vaticano II. Ora – ripubblicato finalmente, e con tutto il prestigio che merita, Il quinto evangelio (L’Orma Editore, pp. 493, euro 26,00) corredato in appendice da tre scritti non narrativi dello stesso Pomilio, da un lungo saggio di Gabriele Frasca, da una nota archivistica di Wanda Santini e da un risvolto firmato da Cortellessa – ci soccorrono, a meglio intendere, le parole di un articolo del 1975, uscito sul quotidiano Il Tempo e dedicato al decennale di quell’evento cruciale. «Il “male”, il “peccato”, – afferma lo scrittore – sono nell’aridità, nell’assenza di carità, nell’oppressione e diniego di libertà, nell’assenza di tensione spirituale e in tutto ciò che provoca arresto e chiusura e blocca una vita morale creativa e fervida». E poi aggiunge, riferendosi al romanzo uscito qualche mese prima, come fosse «inevitabile che un libro cosiffatto accogliesse l’eco di quanto fermenta oggi, in questa età postconciliare, incluse le voci del dissenso: accoglie infatti l’istinto ecumenico, l’esigenza libertaria, il bisogno di essere nel mondo e col mondo, mette all’attivo della storia del cristianesimo certi movimenti innovatori o pauperistici e perfino certe istanze ereticali del passato». (E va ricordato, tra parentesi, che nel 1969, quando Pomilio cominciò a pensare al suo romanzo, presso Einaudi apparvero I Vangeli apocrifi per la cura di Marcello Craveri e con un saggio introduttivo di Geno Pampaloni, evenienza che certo finì per rafforzare e sostenere l’idea di quel progetto).
Il proponimento, per Pomilio, era quello di liberarsi (così annoterà) «da ogni residua obbedienza al genere romanzo» per tramite di «un libero miscuglio di prove espressive d’ogni tipo e livello», dalle lettere ai diari, dalle antiche cronache alle private memorie, dalle leggende agli articoli e ai saggi, dai documenti d’archivio ai testi in versi e ai verbali d’interrogatorio, tutti materiali verrebbe da dire apocrifi che tracciano un orizzonte temporale lungo circa tredici secoli, in una sorta di tripudio di cifre stilistiche, toni, andature che vanno a comporre un mosaico immaginario, aperto, sospeso. Al centro il desiderio struggente e tormentato di una parola «senza fine», secondo l’espressione di San Paolo, ancora sopita, clandestina, possibile e che induce, in coloro che la cercano, scelte radicali, durissime rinunce, solitudine tormentosa, persecuzioni e condanne.
Pomilio, con il suo turbinoso esperimento di «filologia immaginaria», registra i sommovimenti sotterranei e segreti prodotti dal continuo interrogarsi sulla «presenza del Dio assente» per li rami di un Vangelo nuovo ancora sommerso, di uno «scatto in avanti» a spingere verso «un Regno in cui la Carità prenderà il posto della Legge». Ma è poi e soprattutto per quel guardare ai Vangeli come a un «libro d’impazienza», di «dissidenza» e insomma come a una «fonte di virtù antagoniste» che Il quinto Evangelio interpella anche i non credenti, oggi specialmente, laddove «la passione del contraddirsi, il gusto del diverso» paiono ormai detritici, fossili lasciti di una perduta preistoria del mondo che abbiamo conosciuto e amato.