In una raccolta di conversazioni pubblicata da Faber & Faber nel 1990, lo sceneggiatore Paul Schrader riporta quello che l’amico e collaboratore Martin Scorsese aveva sempre pensato della trilogia di capolavori che ha segnato la loro partnership: Taxi Driver era il film di Paul, Raging Bull il film di Bob (De Niro) e The Last Temptation of Christ il film suo. È noto, l’autorialità nel cinema è una questione dibattuta: il regista è l’asso pigliatutto, in particolare in una prospettiva europea impregnata di politique des auteurs (in America, l’Oscar per il miglior film va tradizionalmente al produttore). Attori e sceneggiatori sono autori a loro volta, in percentuali variabili, ma non trascurabili. Eppure, il fatto che Scorsese ammettesse un legame privilegiato con The Last Temptation – dei tre film citati il meno iconico nella carriera del regista per il grande pubblico – la dice lunga su quali fossero le sue vere priorità artistiche.

Il libro che appare ora per La nave di Teseo, Dialoghi sulla fede («le Onde», pp. 157, € 16,00), frutto di una serie di incontri tra Scorsese e il gesuita Antonio Spadaro – già direttore de «La Civiltà Cattolica» – aiuta a chiarire la natura di quelle priorità. La prima delle conversazioni (corredate da un «trattamento» per un possibile film su Gesù) è incentrata sul film Silence, del 2016. Pellicola con cui, a ventotto anni da The Last Temptation, Scorsese è tornato a confrontarsi in maniera diretta con la religione cristiana, adattando un romanzo dello scrittore cattolico giapponese Shusaku Endo. Un progetto dalla gestazione che dire travagliata è poco (ne è indizio la lunga lista di crediti produttivi che compare nei titoli di coda) e che era iniziata mentre il regista partecipava, per una volta nelle veci di attore, nei panni di Vincent Van Gogh, al terzultimo film di Kurosawa, Dreams (1990). Sullo Shinkansen, il treno veloce tra Tokyo e Kyoto, Scorsese aveva finito di leggere il libro di Endo e aveva avvertito che la storia dei gesuiti Rodrigues e Garrupe, alla ricerca del maestro apostata Ferreira nel Giappone seicentesco delle persecuzioni anticristiane, toccava in lui corde che non avevano mai smesso di vibrare.

La sua vocazione artistica, non semplicemente per via del cattolicesimo di cui era impregnato il milieu di immigrati italiani a cui apparteneva, aveva preso le mosse proprio da un sentimento di urgenza dei temi spirituali. Molto si parla del suo anno trascorso in seminario, ma forse più decisive erano state per Scorsese l’esperienza infantile come chierichetto – a cui seguiva lo sconcerto sul perché, fuori dalla Chiesa, nessuno fosse sconvolto dal sacrificio di Cristo – e la figura di padre Francesco Principe: il giovane sacerdote che con i libri di Joyce e di Graham Greene, e con la passione per il cinema e la musica, mostrò a un ragazzino asmatico che c’era un’altra via possibile, oltre a quella della violenza criminale che imperversava lungo la Bowery.

La violenza, però, non sarebbe uscita dall’orizzonte di Scorsese, anzi sarebbe diventata parte integrante della sua visione religiosa – il suo innesco. Con Spadaro, Scorsese richiama la Marilynne Robinson di Absence of Mind: come umani, «siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi». Ma si riferisce anche alla violenza come «esperienza estetica intensificata», nella realtà così come nel cinema: «uno shock che inverte il sistema», che attraverso la comprensione della potenza del male fa intravedere la possibilità di rivolgersi altrove, di convertirsi. Per Scorsese, è la grazia il cuore dell’esperienza religiosa. Nel dialogo con Spadaro, si avverte come questa consapevolezza sia guadagnata sulla pelle, più che ricavata dalle letture: il regista ha vissuto fasi autodistruttive, ha sfidato la malattia polmonare (cosa, tra le altre, che lo fa sentire vicino a Papa Francesco, anche lui sofferente in gioventù ai polmoni), è andato incontro a successi e ad altrettanti fallimenti e delusioni. «Ho avuto la grazia di essere rifiutato – dice Scorsese – la grazia di essere disprezzato e il dono di dire: “Va bene, ricominciamo”.»

Queste parole si legano alla figura di Kichijiro, il giapponese cristiano che in Silence ripudia Gesù per paura degli inquisitori imperiali e più volte tradisce il gesuita Rodrigues. Kichijiro è l’incarnazione di quello «shock» che mette costantemente alla prova la fede di Rodrigues, la sua capacità di amare e di vedere il volto di Cristo anche in chi ci sfida o ci ripugna. Vengono subito in mente agli ammiratori di Scorsese figure indimenticabili come il Johnny Boy/De Niro di Mean Streets, l’amico fuori controllo del protagonista Charlie/Keitel, sua pena e cruccio (ma anche altri epigoni più lontani ed esplosivi come Joey La Motta di Raging Bull o Nicky Santoro di Casinò, entrambi intrepretati da Joe Pesci – e persino il Giuda di The Last Temptation). Tutti quanti fuoriusciti dalla storia famigliare di Scorsese, con il padre Charles sempre appresso a un fratello scapestrato e circondato da un’aura di violenza, che però non abbandonò mai a sé stesso.

Eppure, la penitenza e la compassione non sono qualcosa che si può scegliere per insignorirsi. La chiave di quelle esperienze, per usare le parole di Scorsese a Spadaro, è «la negazione dell’io». Uno dei momenti più intensi di Silence è l’incontro tra Rodrigues, restio a compiere il fumi-e (l’atto di calpestare l’immagine di Cristo), con l’antico superiore Ferreira, apostata già da tempo e trasformato in buddhista con un nome, una moglie e un figlio giapponesi assegnatigli dal governo imperiale. Ferreira incalza Rodrigues, lo spinge a commettere la blasfemia: la sua resistenza, anche di fronte alle torture che i fedeli subiscono, è un segno di orgoglio, di superbia. La voce di Ferreira è quella del diavolo o di Dio? L’immagine di Cristo, che invita Rodrigues a calpestarlo, è un’allucinazione o un miracolo? Non ci sono certezze per Rodrigues, così come non ce ne sono per gli spettatori, che sono portati a vivere lo stesso paradosso. È nello smarrimento – nel silenzio – che ci si può avvicinare all’esperienza di Cristo sulla croce, al suo sentirsi abbandonato.

C’è un filo rosso che collega Silence a The Last Temptation, ed è proprio l’idea della rinuncia alla vocazione come tentazione suprema. Le strade dei due film, però, percorrono territori differenti. Nella pellicola del 1988, tratta da un romanzo di Nikos Kazantzakis, Gesù è sedotto dal rifiuto del sacrificio sulla croce, per una vita umana con Maria Maddalena, con il lavoro di falegname e dei figli, e una morte in età avanzata tra le persone che lo amano – un’abdicazione totale dall’essere il Messia. In Silence, quella vita ordinaria, che Rodrigues sente inautentica ma che finirà per accettare come Ferreira, è il deserto che il giovane gesuita deve attraversare per avvicinarsi alla sofferenza di Cristo: non con il martirio (come credeva), ma tramite il disprezzo di sé, il ridimensionamento dell’orgoglio. E quando sembra giunto nel punto più lontano dalla sua vecchia vita di prete, Kichijiro, diventato il suo servitore, gli chiede ancora una volta di confessarlo, di assolverlo: Rodrigues non vorrebbe, ma lui e Kichijiro sono adesso davvero sullo stesso piano, davvero fratelli – non ci sono più coraggiosi e codardi – ed è il più puro dei sacramenti.

Nel bellissimo libro-intervista con il critico Richard Schickel (pubblicato da Bompiani nel 2011 con il titolo Conversazioni su di me e tutto il resto), Scorsese racconta di quando fece vedere Taxi Driver al suo mentore, padre Principe, che commentò così il film: «Troppo venerdì di Passione, non abbastanza domenica di Resurrezione». Forse il sacerdote non si sbagliava, eppure la domenica sembra destinata a sfuggire per sempre al racconto, troppo «al di là» per essere avvicinata. Scorsese, con la sincerità dei suoi dubbi, e uno sguardo obliquo e mai declamatorio, ha saputo raccontare come pochi artisti nella contemporaneità quello che ognuno può afferrare, almeno un poco, della figura di Cristo: non il suo trionfo, ma la solitudine dell’uomo-Dio.