«Se negli anni del dopoguerra si è scritto un libro che esprime l’atmosfera tragica di quello che poteva essere il crollo del mondo, questo libro è il Doctor Faustus» affermava Lavinia Mazzucchetti nel 1949, presentando al pubblico italiano il capolavoro di Thomas Mann nella traduzione di Ervino Pocar. Oggi, che l’angoscia di quegli anni è ormai appannata e gli interrogativi straziano meno la coscienza infelice del dopoguerra, la nuova versione del Doctor Faustus La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico; La genesi del Doctor Faustus. Romanzo di un romanzo nei dei Meridiani per la cura esemplare e appassionante di Luca Crescenzi (Mondadori, pp.1241, euro  80,00) ci permette di avvicinarci al testo in modo nuovo, con il sollievo del tempo trascorso e la gioia di una «riscoperta».

Lasciando in ombra l’invadenza di analisi e commenti che – spesso a firma dello stesso Mann – hanno gravato come un macigno sul romanzo, Crescenzi riesce mettere in luce la vocazione modernista del Doctor Faustus nella cornice di una poetica orgogliosamente sospesa tra tradizione e contemporaneità. Thomas Mann rifiutava, del resto, di essere rubricato come l’ultimo grande esponente della narrativa Ottocentesca; è un autore del Novecento che guarda con interesse ai protagonisti del romanzo europeo, sfidandoli nella confusione dei punti di vista, nello smottamento dei piani narrativi, dell’incertezza tra verità e invenzione: «Come autore di romanzi (…) – scrive – mi trovo sicuramente a uno stadio successivo rispetto a Tolstoj e sicuramente, più che a lui, sono vicino a quegli scrittori che hanno sperimentato con la forma romanzo e con la sua dissoluzione, a Proust, a Joyce, persino a Kafka».

La storia che narra è estremamente lineare. È il 1943. Mentre il mondo tedesco sta crollando, un vecchio filologo, Serenus Zeitblom, scrive la biografia di un geniale musicista, l’amico Adrian Leverkühn che, ultimo di una fitta schiera di eroi tentati e peccaminosi della letteratura tedesca, deve estro e successo a uno scellerato patto con il demonio. L’inizio è romanticamente avvolto nel fascino della vecchia Germania, a Buchel dove il protagonista nasce, a Halle dove inizia a frequentare la facoltà di Teologia e nella Baviera dei primi viaggi con le sue foreste e i suoi miti. Zeitblom lascia quindi la teologia per la musica: studia, e sogna e realizza una articolazione estrema che si fondi sulla dissonanza: «Non sembra superfluo informare il lettore – scrive Mann in una nota al testo – del fatto che la tecnica compositiva descritta nel XXII capitolo, chiamata dodecafonia, è invero proprietà spirituale di un compositore e teorico contemporaneo, Arnold Schönberg».

Il Tentatore compare più volte nella vita di Adrian: prima nei panni di una prostituta, Esmeralda che lo contagia, quindi a Palestrina, dove si palesa per «parlare d’affari», e infine, per invadere l’anima del musicista condannandolo alla demenza. Grazie al «patto», Adrian avrà ventiquattro anni di creatività ininterrotta: «slanci, illuminazioni, stati di elevazione e sfrenatezza, libertà, sicurezza, leggerezza, sensazioni di potenza e trionfo». Compone allora Apocalypsis cum Figuris e, infine, la Lamentatio Doctoris Fausti, un oratorio che vuole essere una sorta di Nona sinfonia beethoveniana in cui è l’oscurità a trionfare sulla «gioia» tra «echi di risate infernali».
La biografia prosegue ordinata e minuziosa come ci si aspetta da un filologo che metta bene in ordine tra ricordi ed eventi per dimostrare una tesi di fondo: l’analogia tra la vita dell’artista malato e invasato e la storia tedesca, come se il patto stretto da Leverkühn con il diavolo, fosse solo un rispecchiamento di quello stretto dal suo paese con Hitler.

Se la storia è semplice, ciclopica è la struttura e si compone di «voci», «melodie» e «dissonanze» che questa traduzione mette sontuosamente a confronto. Per restituire articolazione e contradditorietà al testo, mostruoso e sfuggente, Crescenzi usa la lingua come un grimaldello, confessando di avere – rispetto alla traduzione di Pocar – «sacrificato l’omogeneità (…) nel tentativo di restituire quella difficile armonia di voci molteplici che è il tratto saliente (e straordinario) del montaggio linguistico di Mann». Per farlo ha normalizzato la lingua di Zeitblom, meno cantilenante e ondivaga che nella precedente edizione. Dona quindi alle pagine dell’incontro con il diavolo un italiano con venature trecentesche, che fa rivivere, in consonanza con Mann, lo stile delle antiche leggende popolari sul Faust. Infine, docile, asseconda le variazioni dell’umore e della lingua del protagonista, cogliendone tutte le oscillazioni.
Basta guardare all’incipit dubitativo di Pocar : «Se a queste notizie sulle vicende del defunto Adrian Leverkühn, (…) premetto alcune parole su me stesso e sulle mie condizioni, dichiaro in modo assoluto che non lo faccio per mettere avanti la mia persona», e paragonarlo alla pacata assertività di Crescenzi: «Voglio assicurare nel modo più risoluto che se premetto alcune parole su me stesso e sulla mia condizione (…) a queste note sulle vicende del defunto Adrian Leverkühn, non lo faccio per mettere in risalto la mia persona».

Così se Pocar propone sempre un linguaggio ragionevolmente contemporaneo – «Certo tacerò, sia pure soltanto per vergogna o per misericordia degli uomini, bé per rispetto sociale. Voglio fermissimamente che il controllo decoroso del raziocinio non abbia a rallentarsi fino all’ultimo», Crescenzi sceglie per l’infernale trattativa quel «buon vecchio tedesco»: «Se sai qualcosa taci. E vo’ tacere, ma solo per vergogna e per rispetto dell’uomini e, sì, per riguardo sociale. Saldo e ben fermo m’è il proposito di non allentare fin nell’ultimo il conveniente vigilare della ragione».

Ma, al di là delle divergenze traduttive, è evidente nella nuova versione il segno della distanza: «Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore ad ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria», scriveva Pocar a ridosso di quella guerra perduta; più attenta al testo e meno commossa, la nuova versione può evocare direttamente il «miracolo», preferire «sciagura» a «disperazione» e concludere con un raddoppiamento del «mio» che – riferito alla terra tedesca – deve essere sembrato a Pocar azzardato, se non scandaloso: «E quando un miracolo che va oltre la fede farà sì che la luce della speranza possa essere tratta dalla più estrema delle sciagure? Un uomo solitario giunge le mani e prega: Dio abbia misericordia delle vostre povere anime, amico mio, patria mia!».
Crescenzi è coerente nell’impegno a «tornare» al testo per farlo parlare e interrogarlo, smascherarne le «bugie» e individuarne i percorsi, anche quelli più dissimulati, fino a mettere in discussione la tesi di fondo di Zeitblom: che cioè non il mite filologo, ma Adrian sia colui che denuncia il patto col diavolo che la Germania sta stringendo con le più cupe forze del XX secolo. «È Adrian, non Zeitblom – scrive Crescenzi – che vede e denuncia il destino faustiano della Germania (…) non si tira indietro e non compie il gesto meschino di denunciare un amico per sottrarsi al sospetto: dice, nella sua allocuzione finale, parlando in prima persona, che anche lui è parte di quel mondo e corresponsabile di quel destino».

Poi, non riesce a resistere al richiamo delle genealogie e ricostruisce – con fascinazioni raffinatissime, spesso inedite e sempre combattive – la fitta trama di riferimenti noti e ignoti su cui si fonda il romanzo, riconoscendo, tra le altre fonti, l’influenza della critica teologica di Tillich, nonché del pensiero dello storico conservatore Gerhard Ritter e riconsiderando l’influenza Adorno, il «suggeritore» per i complicati inserti musicologici.