Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera. Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi avrebbe pubblicato di lì a poco.

Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda lui stesso in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto – e fu allora che «venne la nevrosi».

Il male oscuro è appunto il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene oggi l’espressione male oscuro sia usata indistintamente per definire la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il capolavoro), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al padre e ripeterne i gesti.

Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro. La verità non è quella che il libro dice, bensì quella di cui è fatto; la sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive «io» nel romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo: proprio dalla Cognizione è prelevata, del resto, l’espressione «male oscuro». (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le somiglianze tra i romanzi di Svevo e quello di Berto, a cominciare dal tema della morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario enunciativo, cioè la psicoanalisi come istigazione alla scrittura di un memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia Augusta, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo».
Proprio il confronto con La coscienza di Zeno, tuttavia, aiuta a capire quale diversa disposizione nei confronti della verità narrativa assuma il protagonista di Berto. La «distanza tra Svevo e Berto, verificata direttamente sulla pagina, appare incolmabile»: a osservarlo, giustamente, è Emanuele Trevi nel saggio che correda ora, insieme a una postfazione di Gadda (da «Terzo Programma», 1965), la nuova edizione del romanzo: Giuseppe Berto, Il male oscuro (Neri Pozza, pp. 512, euro 18,00).

Per il narratore del Male oscuro, raccontare non significa camminare sul bordo di un vuoto, facendo della reticenza e della bugia un sistema retorico, una chiave per accedere ai sensi impliciti. Nel Male oscuro, il vuoto viene saturato da un’unica eloquente diceria: la pagina, perciò, non è più un velo, come quello che Zeno stende tra sé e il passato, ma è una tela ossessivamente riempita di caratteri, in cui i motivi essenziali si ripetono, appena intervallati dalle virgole. Queste, d’altra parte, anziché organizzare il discorso, gremiscono una pagina già fitta come un quadro di art brut.

La verità non è, perciò, questione di controllo ed equilibrio, ma di esplicitazione ed eloquenza. Un horror vacui verbale, non meno sintomatico della menzogna, in cui si realizza lo stile psicoanalitico di Berto. Si può paragonare (non assimilare) questo modo narrativo con il flusso di coscienza; ma è più utile riflettere sulla poetica implicata da una simile scrittura, cioè sulla posizione che, attraverso lo stile, questa scrittura e il suo autore occupano nel campo letterario a loro contemporaneo. È lo stesso romanzo a dare le coordinate, accennando alla cura «di cui ora molti parlano alquanto superficialmente, come del resto fanno anche certi romanzieri nostrani per i quali il tocco psicoanalitico è dato dal particolare che Antonio da piccolo tirava la coda al gatto».
Gli scrittori dal «tocco psicoanalitico» usano la materia per alludere senza dire, costruendo il racconto intorno a un nucleo, a un nodo pulsionale o traumatico taciuto, o meglio non commentato. Berto all’opposto fa di quel nodo il tema di una continua affabulazione disperatamente polemica e umoristica, che procede avanti e indietro nel tempo come una lancetta mossa ad arbitrio sul quadrante.

Se il male è oscuro, Berto sfida l’oscurità come tecnica della narrazione e prospettiva della conoscenza. È una sfida sofferta e, nella vicenda del protagonista, perduta. Le diverse istanze – la scrittura, la paura del male e la cura, l’eros misogino – non si conciliano e anzi producono lacerazioni sempre più profonde, perdita affettiva, sconfitta professionale. Fino al conclusivo isolamento, che sfata il clima di un’epoca, gli ideali di progresso, la meccanica dell’ascesa sociale. L’aspirazione alla gloria letteraria resta insoddisfatta, l’ambizione di rivaleggiare con quelli che il protagonista chiama i «radicali» – gli intellettuali di successo, i Moravia, i Tecchi, i Bellonci – viene frustrata. Ma la frustrazione diventa una risorsa del racconto, permettendo al narratore di dipingere con la tinta del suo amaro umorismo la società culturale romana – gli scrittori di riferimento, i produttori, gli sceneggiatori «ai tavolini di Canova o Rosati a piazza del Popolo, o al caffè Greco o ai caffè di via Veneto» – e di prendere contropelo quel tratto di Novecento spesso idealizzato con nostalgia un po’ elitaria.

In quella frustrazione, si sconta certo anche la convinta militanza giovanile dell’autore dalla parte sbagliata. Ma il sentimento è elevato a stile e assunto come espressione idiosincratica del mondo: nel Male oscuro, osserva Gadda, il racconto di una nevrosi s’incrocia con quello di una psicosi, i «cittadini e cittadine della Città folle vengono colti e ritratti nei loro giudizi sbagliati, nei loro movimenti sbagliati».

Il male oscuro è un libro di peculiare importanza e di miglior tenuta rispetto ad altre opere emblematiche o programmaticamente sperimentali uscite negli stessi anni. Per almeno due motivi. Il primo è la rappresentazione di «un tempo in cui tutto va per via di amicizie e raccomandazioni», che somiglia al tempo in cui viviamo, tentati in pari misura – come l’eroe fallito di Berto – dalla rivolta e dalla rinuncia; oppressi e attratti da estinti modelli paterni, imbarazzati dal futuro (come il protagonista dinanzi alla figlia ormai cresciuta). Il secondo motivo è la scrittura, che resta leggibile anche nell’oltranza dello stile; una scrittura fatta per raccontare la realtà di tutti, attraverso il sentire patologico di un individuo che parla sempre di sé – è vero – ma che lo fa reagendo alle ossessioni di un’intera società.