Sulla sua pagina Facebook Mariapia Veladiano, che oltre a essere scrittrice è anche una dirigente scolastica, ha riportato queste parole, rivolte da uno studente a una docente che lo rimproverava per un lavoro non consegnato: «Ma lo sa che l’anno prossimo siamo noi a valutarvi?».

Forse non c’è risposta più convincente ad alcune considerazioni provenienti (per così dire) da sinistra. Mi riferisco all’articolo di Marco Lodoli (anch’egli scrittore e insegnante) uscito su Repubblica il 22 maggio e ad alcuni commenti del direttore del Post, Luca Sofri.

L’articolo di Marco Lodoli, il quale ha partecipato all’elaborazione del Ddl la buona scuola (“confessa” anzi di essere lui l’autore del nome) muove dalla schietta constatazione di non essere riuscito a spiegare ai propri colleghi cosa c’è di davvero buono in quel testo che ora la Camera ha approvato; di essersi scontrato con una sorta di muro di gomma dovuto, dice, a una sfiducia che si è incrostata negli anni, a un irrigidimento frutto di troppe delusioni, ma anche – e lo si coglie nelle descrizioni che propone di questi personaggi strampalati che sarebbero i colleghi di Lodoli – da una sorta di volontà preconcetta che fa da ostacolo all’accettazione di quelle trasformazioni che potrebbero ridare invece fiato a una istituzione sfiancata, rimettere energia dentro un corpo esangue, portare una qualche luce dentro ai corridoi ammuffiti delle nostre scuole.

Insomma se Lodoli il 5 maggio, il giorno dello sciopero della scuola, si trova a scuola solo con il proprio dirigente, è perché l’epoca è quella che è, il mondo è incarognito, la gente è stufa.

Lodoli richiama, in qualche modo, un argomento utilizzato di frequente da Matteo Renzi, il quale, facendo sfoggio di umiltà, dice di avere effettivamente sbagliato sulla scuola, e che il suo errore è stato quello di non essere riuscito a comunicare la cosa nel modo giusto. Dove dicendo questo si tende a far passare l’idea che chi non si riconosce nella buona scuola non è tanto perché ha un’idea diversa, quanto perché, delle due l’una, o non ha capito bene (e infatti per costoro il premier si è messo alla lavagna con i gessetti) o è talmente ideologico che non c’è niente da fare.

Sulla questione dell’ideologia insiste anche Luca Sofri, che cerca evidentemente una strada che non sia quella dell’adeguamento ai partiti presi: pro o contro. E nel tentativo di capire riferisce di una difficoltà di molti a orientarsi dentro una doppia retorica, quella del governo e quella dei suoi oppositori. E’ l’argomento classico del cerchiobottista o del terzista, il quale, quando non è in cattiva fede, ha dalla sua l’onestà di chi vuole provare a comprendere al di là degli sguardi preconfezionati. Però è pericoloso e a sua volta, se posso dire, ideologico, considerare le due retoriche come equivalenti. Non solo perché una ha mezzi e potere che l’altra non ha, ma anche perché in questo modo si asseconda l’idea che il conflitto non riguardi la cosa, ma la sua rappresentazione, esattamente come vuole la retorica governativa.

In realtà basta leggere interventi fra loro molto diversi come quelli di Mauro Piras e Christian Raimo su Internazionale per vedere come il mondo della scuola abbia posto questioni concrete, che hanno a che fare proprio con la sostanza della cosa e non, come si vorrebbe, con la sua rappresentazione. Questioni alle quali le risposte sono quasi sempre state la necessità del cambiamento, l’esigenza di cambiare verso, il bisogno di ripartire e poi, come logico corollario, l’accusa di conservatorismo o anche di leso patriottismo a chi pensa che si stia prendendo una strada sbagliata (si veda l’articolo a dir poco imbarazzante e imbattibile quanto a retorica da marketing pubblicitario del sottosegretario Faraone pubblicato il 9 maggio scorso su Il Foglio).

È chiaro che Renzi e il suo governo stanno lavorando – e in parte ci sono anche riusciti – per fare passare l’idea che chi si oppone alla buona scuola è un conservatore, che nel peggiore dei casi vuole difendere privilegi, nel migliore tratta la vita dei nostri figli e il loro futuro come una vertenza sindacale corporativa invece che come una questione decisiva per il paese.
C’è però ancora un punto nell’argomentare di Sofri che vale la pena richiamare: questa di cui si discute non è una cosa che si possa chiamare «riforma della scuola», dice; e aggiunge: «una riforma della scuola è un progetto complessivo e più esteso, di maggiore profondità, visione e coerenza: questo è un gruppo di interventi, diversi tra loro e a macchia di leopardo, che affrontano alcune questioni del funzionamento della scuola». Anche Renzi insiste molto, ultimamente, su questo: «Non chiamatela riforma, questo è un modo per far ripartire la scuola, per renderla più efficiente, ma non è una riforma». Ecco, questo è il punto: dire questo è produrre ideologia. Significa fare passare un impianto che corrisponde a una precisa idea della scuola per mero intervento tecnico, come una sorta di tagliando, una messa a punto della macchina. Questa è una riforma della scuola.

Andando a modificare le forme del reclutamento, il rapporto fra dirigente e docente e, conseguentemente, fra docente e alunno, questa legge incide sulla scuola ben più di altri roboanti progetti riformatori. In questi interventi a macchia di leopardo c’è una coerenza che sarebbe grave misconoscere. C’è un’idea di scuola che emerge evidente, della quale Renzi ha peraltro sempre parlato e che qui viene veicolata attraverso provvedimenti apparentemente solo funzionali. Come se non fosse chiaro che se c’è un modo efficace per far passare idee e visioni della realtà, questo è proprio quello di agire su mere questioni di funzionamento.
L’idea che emerge da questi provvedimenti è che la scuola deve riconoscersi come luogo della competizione: tra insegnanti, tra alunni, tra dirigenti, tra istituti, e quindi, ovviamente, tra quartieri e tra città. L’enfasi su merito e valutazione mira a questo: a costruire scuole buone per i buoni e scuole come vengono per gli altri; a canalizzare i buoni (e non occorre essere marxisti per pensare che è molto più probabile che i buoni vengano fuori da situazioni agiate, economicamente non problematiche, socialmente quiete, ecc) dentro percorsi che li rendano ancora più buoni e i meno buoni dentro percorsi dove si fa quel che si può.

Le parole valutazione e merito applicate al lavoro della e nella scuola non sono, come si tende a far credere, parole neutre, tecniche, strumenti che a null’altro servono se non a registrare se si fanno le cose bene o male per produrre, come si ripete, miglioramento. Merito e valutazione sono in realtà pratiche che implicano la necessità da parte di insegnanti e dirigenti di adattarsi a protocolli di azione esterni rispetto alla situazione concreta nella quale agiscono, di far propri comportamenti che consentano di raggiungere obiettivi predeterminati indipendentemente dalla specificità delle situazioni, della peculiare esistenza delle persone coinvolte in questo processo.

Le procedure valutative tendono giocoforza a ridurre l’azione didattica in performance misurabile. Si rischia così, nel momento in cui la pratica valutativa assume una funzione dirigente nella scuola, di entrare nel paradosso per cui si organizza la vita della scuola e delle persone che la abitano in un certo modo non perché lo si ritiene giusto e sensato, ma perché così vuole e chiede la valutazione. La valutazione – e non riconoscerlo sarebbe non solo ideologico, ma disonesto – non si limita mai a fotografare la realtà, bensì predetermina e precostituisce con i propri indicatori la realtà a cui si rivolge.

E’ di questo che sono preoccupati molti di quelli che contestano questa legge. Non solo di questioni di dettaglio o di sacrosante questioni relative al precariato, ma soprattutto dell’idea di scuola che soggiace a questi provvedimenti, i quali, toccando questioni di funzionamento mettono in realtà in campo un preciso concetto di formazione, un’idea di società, vorrei persino dire una visione della vita.