Tra Homs, in Siria, e Tripoli, in Libano, saranno al massimo una novantina di chilometri. Una volta partiti bisogna dirigersi verso il mare e Tortus, dove si trova la base navale russa, poi puntare a sud verso il confine libanese attraversando campi coltivati a patate e verdure e la sfilza infinita di serre in cui lavorano i migranti. Cinque anni fa, prima che in Siria scoppiasse la guerra, potevi coprire l’intero tragitto in un paio d’ore, compreso il tempo perso per attraversare la frontiera. Ad aprile del 2013, quando l’ha percorso con sua moglie Souzan stipato nella cabina di un’autocisterna carica di benzina insieme ad altri sette siriani e all’autista, Abdul ci ha impiegato dodici ore. Si lasciava alle spalle una Homs dilaniata dai combattimenti insieme al suo lavoro di impiegato in una azienda tessile e alla speranza di poter continuare a viverci. «Non capivamo più chi ci stava sparando addosso, se Daesh o l’esercito siriano. Siamo rimasti quindici giorni senza cibo e con poca acqua. Poi c’è stata una tregua di 24 ore e abbiamo dovuto decidere in fretta cosa fare, se restare o andare via e siamo partiti», racconta ora Abdul seduto insieme a Souzan su un vecchio divano in una casa alla periferia di Tripoli presa in affitto insieme ad altre tre famiglie di profughi siriani.

La vita non è certo stata generosa con questa coppia di giovani rifugiati. Prima la guerra con i suoi orrori e le violenze, poi la nascita di due bambini, Ayham 2 anni e 4 mesi e Fatima, 1 anno e 2 mesi, colpiti entrambi dalla sindrome di Dandy Walker, una patologia neurologica che rende chi ne soffre cieco, sordo e con grosse difficoltà motorie. La sanità libanese non ha fatto molto per loro, salvo presentargli salatissime parcelle che Abdul ha potuto pagare solo grazie all’aiuto dell’Unhcr. l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ora però, la lotteria della vita sembra essersi finalmente ricordata di loro. Abdul e la sua famiglia fanno parte del gruppo di 101 profughi che questa mattina atterreranno all’aeroporto di Fiumicino grazie al secondo corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle chiese evangeliche italiane (Fcei) e dalla Tavola valdese. Nuclei familiari scelti nel mare di oltre 1 milione duecentomila rifugiati siriani (questo è solo il numero ufficiale, ma stando ad alcune stime sarebbero almeno 1,5 milioni) ospitati da anni in Libano. Abdul e Souzan saranno accolti in una struttura della Chiesa valdese a Torino, dove esiste un centro specializzato nella sindrome Dandy Walker. La speranza è che i loro bambini possano migliorare grazie alle cure.
I corridoi umanitari sono la risposta concreta della società civile all’ipocrisia dell’Unione europea che con la scusa di fermare i trafficanti di uomini sigla accordi come quello del 18 marzo scorso con la Turchia, che serve solo a impedire nuovi arrivi di migranti e richiedenti asilo. Il progetto – finanziato prevalentemente con l’8×1000 della Chiesa valdese e con sottoscrizioni organizzate dalle chiese – costa due milioni di euro e prevede il trasferimento in Italia di mille rifugiati in due anni. «Prendiamo in considerazione soggetti vulnerabili come famiglie con figli piccoli, donne sole, anziani e persone malate», spiega Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope, iniziativa della Fcei che partecipa alla realizzazione dei corridoi. «Con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia si potrebbero portate in Europa tre milioni di rifugiati, tutti identificati registrati e pronti per essere inseriti nelle nostre società».

Tecnicamente i corridoio umanitari sono resi possibili da un’opportunità offerta dal regolamento dei visti europei del 2009. L’articolo 25 prevede infatti la possibilità per uno Stato di concedere visti eccezionali di validità temporanea per motivi umanitari. Più che una porta, uno spiraglio offerto dalle norme comunitarie che le tre comunità religiose hanno pensato di sfruttare dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 dove morirono in un naufragio 366 migranti. È stata avviata una trattativa con il ministero degli Esteri che ha portato alla firma di un protocollo tra Farnesina, ministero degli Interni, Sant’Egidio, Fcei e Valdesi. Il 23 febbraio scorso un primo viaggio ha permesso ai primi 93 profughi di arrivare in Italia, dove hanno trovato ospitalità in cinque regioni. E adesso si riparte.

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 Il campo di Tal Abbas dista dalla frontiera siriana una manciata di chilometri. Due file di baracche allineate lungo una stradina coperta di pietre che servono per far defluire la pioggia. Una cinquantina di famiglie siriane hanno affittato il terreno da un saudita che pagano lavorando nei campi o con piccole somme di denaro. Le casette, alte non più di due metri, sono una attaccata all’altra, i tetti ondulati, tappeti e tovaglie alle pareti e sul pavimento per trattenere il calore. Quando tra pochi giorni arriverà il caldo vivere qui sarà ancora più difficile. Ogni mese l’Unhcr dà a ogni profugo una tessera con 30 dollari per comprare acqua e cibo, più cento dollari al mese nei quattro mesi invernali per comprare il gasolio necessario ad alimentare le stufe. Per quanto possa sembrare assurdo in questa situazione, ogni baracca ha sul tetto la parabola, per molti forse l’unico contatto rimasto con la Siria. Fuori pecore e mucche dividono il campo con i bambini.

Per quanto cerchi di apparire normale, Gharale non riesce a trattenere la gioia. Da due anni vive nel campo con suo marito Sami e i loro quattro bambini, Mater di 11 anni, Ahmed di 9, Manahel di 8 e Raghad, la più piccola, di 3. Ora però è finita. Tra poche ore anche loro partiranno per Roma e la felicità per il modo radicale in cui sta cambiando la vita elettrizza Gharade che non riesce proprio a nascondere la sua felicità. Il motivo è semplice. Per loro, come per tutte le famiglie coinvolte nel corridoio umanitario, partire significa rinascere, uscire dal buco nero in cui sono precipitate a causa della guerra e quasi sempre sperare di riuscire a risolvere un grave problema di salute. È così anche per Gharade. Per quanto sia la più vivace, la piccola Raghdad è talassemica e almeno una volta al mese ha bisogno di una trasfusione di sangue. Una sfida, se sei costretto a vivere in queste condizioni, che adesso però diventa più facile da affrontare.

«Il lavoro che stiamo facendo dimostra che i corridoi umanitari sono possibili, che non è necessario che persone che hanno diritto all’asilo politico rischino la vita in mano alle organizzazioni criminali per arrivare in Europa», spiega Maria Quinto, responsabile del progetto per la Comunità di Sant’Egidio. «I corridoi possono rappresentare una chance anche per l’Europa, per fermare il suo declino. È chiaro che chi entra può cambiare un po’ il tuo modo di vivere, ma stiamo parlando di persone disponibili a integrarsi in un Paese dove potranno finalmente vivere libere».