«Insegnatemi il cammino, voi che siete/ stati morti, attingete la nostra/ verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo/ (…) torneremo a casa, vi diremo».

Così si chiudeva, nel 2010, l’ultimo libro di versi di Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili, con un appello agli scomparsi a fare da guida all’io, perché questi potesse dirli, restituendo loro in qualche modo una presenza. Sono versi che al lettore potevano far pensare a certi momenti precedenti della sua poesia, da sempre occupata, in effetti, da un «pensiero ultimo» capace di farsi totalità, fino alla paradossale coincidenza di opposti (penso a certe uscite memorabili, già nel lontano esordio del 1976, in Somiglianze: «questa morte non è solo svanire/ ma insieme, un poco, esserci»).

Ora quegli stessi versi appaiono anche un ponte che si affaccia sulla nuova raccolta di De Angelis, Incontri e agguati (Mondadori «Lo specchio», pp. 69, euro 18,00), nella quale proprio Thanatos è convocata a celebrare una sua «cerimonia incessante». Qui, tuttavia, il rapporto fra parola e morte subisce – nella prima delle tre sezioni che compongono il libro – una torsione decisiva.

L’io non farà infatti soltanto da tramite per la rievocazione dei perduti, ma incontrerà lui stesso – frontalmente – una morte diventata onnipresente personaggio, una «figura plenaria» che allunga la sua ombra su ogni dettaglio, e con cui l’io entra in una Guerra d’assedio, come recita appunto il titolo della sezione d’avvio. Che «nostra inimica mors» – come la battezzava un verso di Distante un padre – sia il perno del libro lo testimonia, da subito, il testo iniziale, uno dei più intensi dell’insieme: «Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni/ conosco i pezzi buoni e quelli deboli, i giorni propizi, la virtù/ di applicarsi minuto per minuto e quella/ di sostare, sostare e attendere/ una soluzione nuova per il guasto./ Vieni, amico mio, ti faccio vedere,/ti racconto».

Tuttavia quella di De Angelis non è mai stata una poesia di confidenze, di domestica intimità con il suo lettore. Anche quando si prova nel «racconto» di sé e della propria esperienza, questa voce diamantina affida la propria urgenza a un dettaglio sviato, non all’intero, e l’immagine non può che risultarne frantumata, ogni eventuale biografia deve farsi – ci avvertiva un altro suo grande libro – sommaria. Dunque non inganni quell’invito frugale, perché l’apostrofe-proemio a un lettore-amico finisce col proiettare comunque una luce anche più straniata su quanto segue, dentro un andamento poematico in cui nessuna fra le singole liriche assume un titolo proprio – il che accadeva anche nelle ultime due raccolte – e in cui ciascun testo assomiglia così a una specie di scheggia, di frammento rubato al silenzio.

Dentro una ininterrotta meditazione interiore, giocata appunto «minuto per minuto» – dove la morte è un’implacabile guerriera, «astuta e discontinua», con cui si cerca «un patto» o «una trattativa» – si intravede dunque un qualche pur tenue intento narrativo.

Se il nesso analogico ardito è uno stilema tipico di De Angelis («quel mormorio/ di indizi e milligrammi», «un sussurro di quaderni», «il sibilo/ di un ricordo»: il discorso ‘sottovoce’ è forse uno dei modi più efficaci e suggestivi di questa poesia), il suo corrispettivo – quanto all’architettura della raccolta – è l’abolizione dei nessi temporali fra le liriche, che emergono solo per illuminazioni improvvise, enigmatiche («Poi, di colpo, un lunedì di febbraio/ tutto è tornato come prima… è uscita/ dal suo feudo,/ ha fatto incursioni, all’alba»). E intanto – alle prese con il più ingrato degli ospiti – l’io lirico non può che arretrare debolmente, mostrarsi in tutta la sua mancanza, diventando anzi «l’incarnazione/di ciò che perdiamo», il «precipizio» di un sé «invaso dalle domande». Percorrendo un sentiero che cominciava a mostrarsi per la verità sin dall’inizio (basta tornare, ancora una volta, a Somiglianze: «se ti togliamo ciò che non è tuo/ non ti rimane niente») e sembrava in qualche modo diventare esplicito proprio con Quell’andarsene nel buio dei cortili (anche lì il soggetto era dentro un’incertezza fondativa, capace di diventare riflessione sul proprio fare poesia: «Non ho saputo capire/ non so ancora (…) se i baci sono freddi/ nella mia poesia»), l’autore di Incontri e agguati non può che affidarsi a un’immagine minimale per ritrarre infine se stesso come «un povero fiore di fiume/ che si è aggrappato alla poesia»: un io caparbio, insomma, e insieme spoglio, costitutivamente fragile.

Nella seconda sezione – che dà peraltro il titolo al volume – il clima di assoluto ha stavolta per «idea centrale» il Niente (e niente o nulla sono pure due emblemi di cui si potrebbe ricostruire una lunga storia dentro la scrittura deangelisiana), cui è anche dedicato una sorta di celaniana invocazione: «Dolce niente/ che mi hai condotto negli anni/ del puro suono, quando tutto si diffondeva/ dalle vaste novelle dei genitori/ e il mondo sconosciuto ci chiamò…». Eppure il tono di mite cupezza è come attenuato, nei testi circostanti, dal battere della memoria su volti e luoghi conosciuti, ritrovati improvvisamente nel ricordo, dalla dolcezza appena accennata – senza comunque cedere all’elegia – dei nomi di persona e dei luoghi.

Ed è infine un luogo milanese – quel carcere di Opera dove De Angelis insegna – a fare da ambientazione – e insieme secondo protagonista, potremmo dire – per l’ultima parte di Incontri e agguati, cioè Alta sorveglianza, sezione dedicata all’omicidio di una «giovane sposa» da parte del suo uomo, cui il lettore è avviato da un esergo preso a prestito dall’Oscar Wilde della Ballata del carcere di Reading: «Ognuno uccide ciò che ama».

Alla Morte e al Niente si aggiunge dunque, in questo congedo, il terzo demone della scrittura di De Angelis, ovvero la Reclusione (che sembra anche diventare, non a caso, pertinenza stretta dell’io lirico, oltre che del ragazzo omicida di cui si racconta: «In carcere bisogna parlare/ lo sanno anche i taciturni come te»; «Quando hai cominciato l’opera/ eri chiuso nel quadrilatero della tua voce»). Lo spazio-carcere è in effetti continuamente demarcato, toccato, alluso e inevitabilmente interiorizzato («Ma le mura le avevamo già dentro»), mentre il tempo sembra piuttosto sfrangiarsi, perdere consistenza («qui ogni mese può essere infinito»), così che ancora di più la voce lirica può assumere una sorta di potenza visionaria, indispensabile alla trasfigurazione – violentemente rastremata – del crimine; anche se è una trasfigurazione comunque colma di oggettività, di concretezza, talvolta di raggelati dettagli: «Nella punta di questa matita/ c’è il tuo destino, vedi, nella punta aguzza e fragile che scrive sul foglio». Un destino, appunto, è il crimine qui evocato, molto più che un fatto di cronaca, un misterioso «destino che nessun diario/ raccoglie, nessun giornale, cronaca/ o storia», ma che ha bisogno della radicalità della poesia per poter essere detto (e una volta di più si lega così la sorte dell’omicida a quella dell’io lirico che le dà forma).

Una poesia circolarmente ossessiva, frutto di una sorta di metafisica asciutta o negativa – sul rovescio – e per così dire senza fondamenti («sei tornato/ dall’aldilà, hai risposto che dio non esiste/ ma le anime sì»), come quella di Milo De Angelis, che torna qui a regalarci versi che accogliamo fra i suoi più alti: «Riappare quel giorno immobile/ sul sentiero dell’estinzione/ e noi siamo la forma destinata/ a quel gesto magistrale:/ ricordo solo il bacio/ che diventò strage cieca e senza tempo».