Si è molto discusso nella primavera milanese di quest’anno quale fosse più brutta tra la mostra sull’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza e quella su Leonardo da Vinci, entrambe a Palazzo Reale.

Molti sono i punti di contatto tra le due manifestazioni, impiantate da parecchio: in agenda fin dai tempi della giunta Moratti e quindi per magagne e mancanze, per quelle di pensiero almeno, non si può chiamare in causa la scarsità del tempo a disposizione.

Le due mostre hanno inoltre in comune il produttore, l’editore, l’architetto-allestitore… Verrebbe da dire la filosofia della vita. Sono in perfetta continuità, l’una e l’altra, sia pure per ragioni differenti, con quanto si è visto a Milano per tanti anni: dagli anni ottanta in sostanza, da cui provengono anche i loro curatori (con una sola eccezione). Nonostante le aspettative e le fatiche, i tentativi di provare a organizzare diversamente le manifestazioni culturali gestite dall’ente pubblico si sono purtroppo rivelati vani anche nella Milano di Pisapia. E quindi è inevitabile che oggi in città la mostra più progressiva per intelligenza, qualità dell’allestimento, sforzo di restituzione di un problema culturale e persino poesia sia quella organizzata da Salvatore Settis – sulla riproducibilità delle opere d’arte nel mondo classico – in una struttura privata: la Fondazione Prada. Solo in quel circuito di mura, in una zona periferica, tra edifici giustapposti con la naturalezza dei vecchi oratori, si rintraccia il filo di un’utopia democratica, che mescola livelli altissimi di qualità, nel rispetto pieno dei visitatori. Basta prendere in considerazione le didascalie o i dépliant gratuiti o la cortesia dei custodi. E negli spazi della Fondazione, anche fuori dalla mostra, gli incontri sono stordenti e qua e là memorabili: il Barnett Newman, i Pascali, il tombino con il cuore che sanguina di Robert Gober mentre l’acqua scorre, nella Haunted House tinta d’oro, o il Lost Love di Damien Hirst con i pesci colorati che volteggiano nello studio del ginecologo, installato nella vecchia cisterna dell’antica distilleria. O la caverna di Thomas Demand, nella cantina del nuovo, magnifico cinema. E chi più ne ha più ne metta, in un intreccio tra presente, passato e futuro in cui capita persino d’incontrare un gruppo di arazzi con storie mitologiche su cartone – se non ci sbagliamo io e Jacopo Stoppa – dei fratelli Dossi… E ci sarà da ritornarci con calma per verificare la plausibilità dell’attribuzione.

Invece il match tra le due mostre interferenti di Palazzo Reale tasta il polso della cultura media, nei suoi aspetti ufficiosi e ufficiali, di Milano, quella con i piedi per terra e che ha rinunciato, a differenza di quanto fatto da Prada, a un pensiero politico.

Prima di visitarla, pensavo che l’esposizione leonardesca, nel suo carattere decisamente da parata, adatto alla coincidenza con un’esposizione universale, secondo un vecchio schema che nessuno si è sentito di mettere in discussione, dovesse essere giudicata con più benevolenza di quella che ha occupato per tre mesi le sale basse, e tanto infelici, del Palazzo. Infatti l’Arte lombarda dai Visconti agli Sforza del 2015 mi era sembrata come un remake, non necessario, di Rocco e i suoi fratelli o della Dolce Vita o del Gattopardo; perché scomodare quella suprema costruzione storiografica inventata da Roberto Longhi nel 1958 proprio per l’allora invidiato Palazzo Reale di Milano e riproporla, aggiornata, al pubblico di oggi con tanta minore qualità nello stile espositivo e in quello della ricerca? Perché non scegliere un altro taglio cronologico, meno compromesso da quel modello illustre? Bastava una passeggiata nelle sale per rendersi conto della distrazione e del poco rispetto per il senso civile che una mostra, a maggior ragione in uno spazio pubblico, dovrebbe avere: cartellini avari, senza spiegazioni di sorta, secondo lo stile del limitrofo Museo del Novecento; le date delle opere qualche volta presenti e qualche volta no, persino riferimenti generici come «seconda metà del XV secolo». E chi s’è visto, s’è visto. In compenso, tra musiche d’epoca che avrebbero dovuto «fare atmosfera», stendardi di gusto neorinascimentale con indicazioni genealogiche su agnazioni e parentele tra rami maggiori e minori dei Visconti e degli Sforza del tutto irrelate a quanto si vedeva nelle sale. E intanto, senza colpo ferire, capitava persino di incontrare il ritratto di Bernardino dei Conti raffigurante il duchetto, cioè lo sfortunato figlio di Gian Galeazzo Sforza e di Isabella d’Aragona, accompagnato da un cartellino che lo indicava come l’effigie di Francesco II Sforza, l’ultimo duca di Milano, figlio di Ludovico il Moro e di Beatrice d’Este.

Lo standard del catalogo è improntato agli stessi criteri, almeno per quanto riguarda le scelte grafiche. Ma tutto questo potrebbe sembrare un peccato veniale, se non fosse che dall’Arte lombarda 2015 non era possibile comprendere, secondo un racconto serrato, la grandezza del Trecento e del Quattrocento in Lombardia, lo scopo cioè della mostra del 1958: «sciogliere la cultura lombarda dagli ultimi ma ostinati residui del lungo complesso d’inferiorità che l’ha ostinatamente tenuta in soggezione al confronto d’altre regioni d’Italia; della Toscana, soprattutto». Giovanni da Milano o Giusto de Menabuoi erano del tutto sottorappresentati, il carattere dorsale di Vincenzo Foppa per questa vicenda era completamente sottaciuto, del Bramantino non c’era neanche un dipinto, di Leonardo neanche un disegno. E si potrebbe continuare per un po’, con l’amarezza nel pensare alle persone brave che hanno preso parte a un’impresa tanto scombinata, così priva di regia: perché ci sono state? Perché non hanno saputo dire un «no, grazie», «magari, un’altra volta»? E non è una giustificazione ripetere che a Palazzo Reale c’erano oggetti bellissimi; non bastano a fare la qualità di una mostra. È semmai vero il rovescio: si possono fare mostre bellissime, anche senza oggetti bellissimi. Così come, a teatro, ci sono spettacoli meravigliosi anche a partire da testi mediocri.

Ma quando ho poi visitato la mostra Leonardo da Vinci 1452-1519 Il disegno del mondo, non ho più avuto dubbi su a quale delle due esposizioni, così interconnesse, spettasse la palma. Difficile è superare il record di Leonardo. Quanto si era paventato fin dall’annuncio, al tempo di Letizia Moratti, di una mostra leonardesca per l’Expo, si è puntualmente verificato: l’esposizione ha – aggiornata ai tempi d’oggi – la cadenza e l’impegno e i risultati di quella del 1939, quella congerie di opere, fortemente voluta dal Duce, che aveva occupato per alcuni mesi il Palazzo dell’Arte. Longhi l’aveva definita «abominevole»; oggi ce ne ricordiamo soprattutto per la recensione di Carlo Emilio Gadda e per l’allestimento, che dalle foto sembra qua e là bellissimo, con prove di Giuseppe Pagano e Lucio Fontana. Nella Milano di oggi non si può dire altrettanto della messinscena: ma certo è più discreta di quella dell’Arte lombarda. Qui niente vetrine a forma di flaconi di profumo; ci sono invece cartellini provvisti di indicazioni sulle date di nascita e di morte degli artisti; luci ben puntate sui disegni, che si vedono con agio, anche perché, a differenza delle aspettative, la mostra è affollata ma non gremita. Niente a che vedere con le code per Klimt o Chagall, almeno le volte in cui ci sono stato io.

I problemi sono nell’impianto dell’esposizione che rifiuta a priori l’ordinamento cronologico, distribuendo i tanti disegni di Leonardo, generosamente prestati dalle maggiori raccolte, e i pochissimi dipinti in sezioni intercambiabili e dai titoli generici e vani: «Il disegno come fondamento», «Il sogno», «L’unità del sapere», «Realtà e utopia»…; c’è persino un «De coelo e mundo» (sic, p. 397). Quanti di questi fogli meravigliosi potrebbero migrare da una sala all’altra senza colpo ferire, senza togliere o aggiungere nulla. Su questo traliccio opinabile si innestano confronti, di rado perspicui, con opere di altri artisti, da Botticelli ad Antonello da Messina. Sorprende, in questa miscellanea, la sicurezza con cui la Madonna Dreyfus, giunta dalla National Gallery di Washington, è esposta come una primizia di Leonardo, quando a rivederla pare proprio un apice del giovane Lorenzo di Credi nella bottega di Verrocchio, e altrettanto si deve dire per lo scomparto di predella del Louvre con l’Annunciazione.

Perché aprire la mostra con un tondo del Ghirlandaio dipinto a Firenze nel 1487, quando Leonardo era ormai già da anni a Milano? Viene in mente la recente, e pretenziosa, esposizione su Bramante a Brera, dove, per dare conto dell’Urbino cruciale in cui si è formato l’artista, era presentato un malandato Cristo benedicente con l’attribuzione a Bartolomeo della Gatta, che – qualora si ammetta la bontà del riferimento – dovrebbe toccare almeno agli anni ottanta del Quattrocento; peccato che Bramante fosse già a Bergamo nel 1477, e quindi quel dipinto nulla gli avrebbe potuto insegnare. Queste non sono questioni di lana caprina, sono precondizioni quando si inventa una mostra che pretende di avere una base storica e che si rivolge a un pubblico ampio che ha il diritto di imparare cose giuste.

Nell’esposizione leonardesca non è impeccabile la conoscenza degli studi recenti e anche tra quelli del passato non sono certo i migliori a fare da bussola: dalla bibliografia generale manca persino il Leonardo uomo di lettere di Carlo Dionisotti; solo qualche esempio di magagne di tipo diverso: nella questione, che occupa tanto spazio, delle teste di Alessandro Magno e di Dario realizzate da Verrocchio e donate da Lorenzo il Magnifico al re d’Ungheria Mattia Corvino è completamente ignorato lo studio risolutivo di Francesco Caglioti; un codice del British Museum con studi di ingegneria civile e militare è presentato con la data «1450-1460 circa» e con l’attribuzione a Giacomo Cozzarelli, i cui estremi biografici sono 1453-1515. La stessa cronologia, «1450-1460 circa», è accolta per un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, i cui disegni spettano, lo si sa da tempo, al Maestro di Stratonice, con tutto quello che ne consegue. Idem dicasi per i due dipinti di Filippino Lippi, uno da Londra e uno da Budapest, che sono esposti entrambi con la data «1470 circa», tenendo per buona la nascita del pittore nel 1457, così che li avrebbe realizzati da tredicenne. Ma che cosa dire degli Este considerati i signori di Mantova (p. 572)? Della Danae di Baldassarre Taccone definita «opera musicale in rima» (p. 554)? Leggendo il ponderoso catalogo, così poco accessibile tra ripetizioni e divagazioni, si potrebbero riempire pagine di annotazioni del genere: limitiamoci ancora a una. Il San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana, su cui si può discutere (io non ci credo) se spetti al 1490 circa come recita il cartellino, è detto «acquistato dallo Stato italiano nel 1856 per i Musei Vaticani» (p. 527): nel 1856? Lo Stato italiano?

E fermiamoci qui.

Non c’è un calmiere qualitativo nell’esposizione leonardesca, dove accanto ad autentici capolavori, non mancano opere sotto il livello minimo che un’esposizione del genere richiederebbe. Questo è particolarmente evidente nelle più infelici sezioni della mostra, quelle dedicate ai seguaci di Leonardo e alla sua fortuna. Per volontà dell’assessore si sono evitate alcune presenze contemporanee più che discutibili, già annunciate in una conferenza stampa della scorsa estate, dalla Gioconda grassa di Botero al Cavallo di Aceves. Nonostante questo il livello del finale della mostra è davvero basso: e l’infilata di Gioconde nude, di cui una di proprietà privata insignita del cartellino «Ambito di Leonardo da Vinci», è indimenticabile. Particolarmente disonorevole è l’esposizione come un autografo di Francesco Napoletano (in mostra, ma non in catalogo, a sancire una doppia verità) di una Madonna, ancora una volta di collezione privata, che non è altro che una tarda copia dal dipinto posseduto dal Castello Sforzesco e presentato lì accanto: incidenti del genere erano comuni al tempo del Cinquecento lombardo, la fortunatissima esposizione del 2001 a cui, non a caso, uno dei due curatori della mostra odierna aveva partecipato.