È il 5 settembre 1936. La guerra civile di Spagna è scoppiata da pochi mesi e a Cerro Muriano, una manciata di chilometri da Cordoba, il reporter di guerra Robert Capa ha appena scattato una fotografia destinata a divenire una delle immagini più celebri e discusse di tutti i tempi. Si tratta della Morte di un miliziano: il corpo del soldato lealista Federico Borrell Garcia cade riverso all’indietro colpito da un proiettile di una mitraglia franchista e Capa ferma sulla sua pellicola 35 mm l’ineffabile attimo del passaggio tra la vita e la morte consegnando al mondo il volto al dolore. L’esempio dell’immagine di Capa – per anni accusata di essere un falso montato a tavolino dal reporter – dipana in modo paradigmatico il legame tra etica visuale e fotogiornalismo, tra la denuncia di chi si trova dinnanzi ai fatti a proprio rischio e pericolo, e chi ai fatti sceglie se credere o meno lasciandosi trasportare dalla potenza di un’immagine su carta patinata.

Questo nesso è ben chiaro alla pluripremiata reporter canadese Jo-Anne McArthur, autrice del fortunato saggio fotografico We Animals (Lantern Books), appena pubblicato in versione arricchita con scatti inediti e con la prefazione di Roberto Marchesini, con il titolo Noi animali da Safarà editore (pp. 250, euro 30). La McArthur, che si definisce non a caso una «reporter di guerra», da oltre dieci anni è impegnata a catturare con il suo obiettivo le condizioni di vita di animali invisibili, non i pet e nemmeno gli animali selvatici, ma quelli che transitano vite brevi e agre in luoghi dove la loro soggettività è obnubilata: smontata nei mattatoi e nei centri di ricerca biomedica, ridicolizzata in quelle feste sadiche che portano il nome di «corride» o negli zoo. «Animali fantasmi» come li chiama McArthur. Oltre quaranta paesi toccati, migliaia gli scatti realizzati: un archivio fotografico che ha contribuito a più di cento campagne per i diritti animali in tutto il mondo; per il suo impegno politico, Jo-Anne McArthur è diventata la protagonista del documentario The Ghosts in our Machine di Liz Marshall ed è stata nominata tra le «dieci donne che stanno cambiando il mondo» da HuffPost; un curriculum impressionante per una giovane donna minuta.

Il testimone di tutti i volti incontrati dalla McArthur è Ron, scimpanzé a cui il libro viene dedicato. Dal 1987, Ron fu sottoposto a oltre centocinquanta anestesie presso il Laboratorio di Medicina Sperimentale e di Chirurgia per Primati (Lemsip) di New York, operazioni dolorose e invasive condotte per il «progresso della scienza» che Ron ha saputo portare con coraggio sulle sue «larghe spalle». Nell’immagine di copertina, scattata nel rifugio Save the Chimps dove lo scimpanzé ha passato gli ultimi due anni di vita e dove McArthur lo incontra, Ron è seduto e ci guarda con l’espressione dolce di chi, dopotutto, non porta rancore. McArthur cerca di farci esperire la possibilità di mettere a fuoco chi costantemente scegliamo di rimuovere dai nostri campi espositivi. I suoi scatti richiedono una messa in pausa del flusso caotico della vita nella quale tutti ci troviamo immersi, quella sovraesposizione d’immagini che si affastellano.

Non bisogna abbassare lo sguardo di fronte agli occhi terrorizzati di un maiale portato al macello, bisogna guardare in faccia i lager, farli in qualche modo nostri – ed è qui il compito della fotografia – per poterli archiviare e consegnare al passato. Per chi crede che sia un futuro tutto da immaginare, McArthur ci porta scatti da mondi eu-topici ma che sono già qui. I santuari per animali dove mucche, galline, maiali e polli sottratti da situazioni di sfruttamento possono vivere in accordo con le loro esigenze etologiche. Sono fotografie incantevoli quelle che provengono da questi eden, McArthur immortala gli animali dal basso, in splendide pose che fanno sperimentare il loro punto di vista, permettono di vestire una prospettiva inusitata per la nostra specie come quella di una mucca che bruca pacificamente un ciuffo di erba fresca.

È in questo senso di pacificazione con la terra e con noi stessi, che riscoprire quel comune «essere animali» ci dimostra, così come ha fatto Ron, che vale sempre la pena concedere una seconda possibilità. Il tutto in un’ottica di compassione allargata, per noi, per Ron e per tutti i fantasmi che abbiamo incontrato nel divenire incerto delle nostre vite.