Dedicata a raccogliere saggi di letterati italiani che si misurano con la mutazione antropologica intervenuta alla fine del mondo bipolare, la collana «Solaris» della Laterza assume il disorientamento come punto di vista privilegiato e come chiave di lettura della contemporaneità. Ne fa fede il volume titolato I destini generali di Guido Mazzoni (pp. 122, euro 14,00) brillante storico e teorico della letteratura, autore, tra l’altro, di una Teoria del romanzo, che è tra i contributi più innovativi sull’argomento, e di notevoli libri di poesia.
Nato nel 1967, Mazzoni appartiene alla generazione che si è formata a cavallo dei due secoli: è dunque un testimone ideale, che ha sperimentato il tramonto del «secolo breve», raccontato nella forma di resoconto del suo primo viaggio a Berlino all’inizio degli anni novanta. Di quel secolo, segnato da una memoria tragica e diviso tra narrazioni contrapposte e in competizione tra loro (il western way of life dell’ovest e l’est che si pretendeva comunista), Berlino è stata indubbiamente la capitale simbolica. Ma la generazione di Mazzoni è anche quella che è stata travolta dalle trasformazioni indotte da un capitalismo trionfante e senza avversari – almeno senza avversari «credibili» per «noi buoni Europei», per dirla con Nietzsche, dal momento che il fondamentalismo islamico rappresenta proprio uno degli aspetti, certamente quello più mostruoso, del cambiamento globale.

È un altro viaggio, ancora a Berlino, questa volta nel 2013, a fornire a Mazzoni la necessaria cartina di tornasole per verificare l’avvenuta mutazione. Nella città che descrive, pacificamente convivono le memorie istituzionalizzate di una passato recente (il comunismo) e più lontano (il nazifascismo) e la glorificazione della merce, padrona assoluta dei nostri destini generali. Commentando una foto da lui stesso scattata, scrive: «In Potsdamer Platz sono stati reinstallati, a beneficio dei turisti, alcuni pezzi del Muro. Sono circondati da pannelli che spiegano il significato di quei blocchi di cemento. Quando però li si mette nel contesto, l’immagine che si ottiene è sovrastata da un’enorme pubblicità dell’iPad» (Mazzoni avverte il lettore che quella stessa emblematica fotografia è stata scattata con il suo iPad…).
In mezzo, tra la fine del vecchio mondo e l’ascesa irresistibile del nuovo, ci sono tutti quegli «eventi», dall’attentato alle due Torri di New York all’invasione degli ultracorpi berlusconiani in una Italia dalla memoria azzerata, che hanno segnato il nostro presente e che hanno la caratteristica, tipicamente post-moderna, di coglierci sempre di sorpresa, lasciandoci attoniti, privi degli strumenti intellettuali necessari alla loro comprensione, sguarniti insomma di una filosofia – perché è proprio questa che manca – capace, come l’hegeliana nottola di Minerva, di alzarsi in volo per concepire il mondo in cui siamo gettati.

Il filosofo comunista Ernst Bloch, in pieno Novecento, aveva individuato come tratto costitutivo del presente l’«oscurità» essenziale. Troppo vicino per essere visto, il presente che stiamo vivendo ci sfugge e come neve si scioglie nelle mani di chi vorrebbe afferrarlo.
Bloch faceva appello alla dialettica come a quell’arte che permette di «ruotar fuori» dal presente per oggettivarlo e produrne un concetto critico. A questa esigenza di distanza critica da un presente troppo ingombrante sembra corrispondere l’urgenza che muove la collana in cui è ospitato il libro di Mazzoni. Agli intellettuali convocati si chiede che svolgano il compito loro affidato almeno dalla stagione eroica dell’illuminismo: devono «rischiarare» il presente, dissipare le nebbie che lo rendono impalpabile.

L’autore vi fa fronte in due modi, che scandiscono i due tempi del suo discorso. Da un lato, soprattutto nel primo capitolo, disegna una teoria del contemporaneo che costituisce una efficace sintesi di quella che ormai si può definire la critica italiana della cultura. Sotto il segno di Pasolini e della sua nota teoria della «mutazione antropologica», la nuova epoca che viviamo è presentata come il tempo dell’ascesa delle masse atomizzate, emancipate dal dominio della Legge trascendente e di tutti i suoi succedanei mondani (famiglia, partito, sistemi valoriali e cpsì via), obbligate dal consumismo dilagante a un godimento compulsivo e mortifero, incapaci di costruire nuovi legami sociali e intergenerazionali che vadano oltre l’immediatezza del presente (fine della Storia), indifferenti se non addirittura ostili alla dimensione del progetto e del sacrificio (dopo la politica).

All’origine di questa mutazione – ancora una volta Pasolini docet – ci sarebbe l’evento 1968, il quale, come un Giano bifronte, sarebbe tanto l’ultimo episodio della Storia con la maiuscola, in catena con le altre date che hanno scandito il sogno rivoluzionario di una umanità redenta dall’oppressione (il 1789, il 1848, il 1871, il 1917), quanto il laboratorio di quegli homines novi che in nome di una malintesa liberazione avrebbero inaugurato, già a partire dai fatidici eighties, l’epoca dell’individualismo sfrenato e dell’edonismo generalizzato. È nel primo volume di Capitalismo e Schizofrenia di Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo, che Mazzoni individua il testo manifesto di questa svolta epocale: una filosofia dell’immanenza radicale, quale è quella sostenuta dai due francesi, una filosofia che contesta sistematicamente ogni trascendenza, finanche quella che si riproduce nel seno della famiglia, porterebbe inevitabilmente a una atrofia generalizzata dell’esperienza, che Mazzoni descrive con le parole profetiche (e assai «pasoliniane») di Alexandre Kojève, il grande commentatore di Hegel, maestro di un’intera generazione di intellettuali, il quale, alla vigilia del ’68, poco prima di morire, prospettava per l’Europa spirituale, dominata dall’«americanismo» (secondo lui, non faceva eccezione nemmeno la Russia sovietica) una sorta di regressione al «regno animale dello spirito».

Per Kojève a venire messa radicalmente in questione dalla «mutazione antropologica» in corso era, in ultima analisi, la forma stessa dell’Uomo, la sua differenza specifica dall’animale. Tutte le grandi distinzioni concettuali che, da Cartesio in poi, hanno costituito l’orgoglio della modernità – natura/cultura, spirito/materia, coscienza/estensione, qualità/quantità – ne verrebbero investite e dissolte. Il ’68 prima (almeno nella incriminata versione fornita da Deleuze e Guattari), l’ascesa del capitalismo finanziario poi, con la sua smaterializzazione della realtà, avrebbe assecondato questa trasformazione fino a renderla senso comune presso le nuovissime generazioni (gli «adolescenti» già stigmatizzati in tempi non sospetti di «post-modernismo» dal Pasolini «corsaro»), ormai incapaci di operare le più elementari distinzioni di senso e di valore (al punto da inserire, come documenta Mazzoni, con spensierata allegria, l’hashtag #feelgood nei messaggi twitter inviati agli amici da un viaggio della memoria a Aushwitz).

I destini generali, però, non si esaurisce in questa denuncia morale dei guasti della contemporaneità. Se si limitasse a questo, costituirebbe soltanto un ulteriore capitolo di quella critica di un presente senza Dio e senza Valori, senza Storia e senza Trascendenza, che, dopo Pasolini, tanto successo ha avuto presso gli intellettuali italiani, indipendentemente dalle loro opzioni politiche, filosofiche o religiose (e sarebbe tempo di interrogarsi sulle ragioni di questo consenso generalizzato). Con grande onestà intellettuale, Mazzoni, nel secondo capitolo, dà voce anche al lato meno frequentato di questo diffuso e condiviso atteggiamento teorico. Chiamato dalla mission stessa della collana che ospita il suo bel saggio a prendere posizione sull’epoca che giudica, Mazzoni non esita infatti a confessare l’impotenza politica di una tale critica morale. Alla luce di questa analisi non ci sono alternative praticabili e, soprattutto, «credibili». Dalla teoria critica non consegue insomma nessuna prassi trasformatrice del reale, con buona pace del Marx dell’XI tesi su Feuerbach («I filosofi hanno finora soltanto diversamente interpretato il mondo. Si tratta di trasformarlo»).
All’intellettuale che ha aderito al paradigma pasoliniano come al solo modello capace di spiegare il presente, non resta che riconoscere, come fa Mazzoni nelle righe magistrali che chiudono I destini generali, di non aver «nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo». «Ho solo – scrive – una forma di disagio».