La sera del 6 maggio, New York è stata scossa da un’altra ondata di proteste. Centinaia di manifestanti pro-Palestina hanno raggiunto il perimetro blindato del Met Gala 2024, considerato uno degli eventi più mondani al mondo, che si tiene ogni primo lunedì di maggio e attira nell’Upper East Side di Manhattan le più grandi celebrità del momento.

Mentre Kim Kardashian, Jennifer Lopez, Shakira e altre decine di super star sfilavano sul red carpet allestito davanti al Metropolitan Museum, il corteo proveniente dall’Hunter College, 12 isolati più a sud, ha iniziato a girare intorno all’area delimitata dalle transenne e presidiate dalla polizia. La manifestazione è stata denominata dagli organizzatori il «Giorno della rabbia per Gaza». Sui cartelli portati dagli attivisti, oltre alle scritte in sostegno del popolo palestinese, si poteva leggere «Niente Met Gala mentre le bombe cadono a Gaza» e «Nessuna celebrazione senza liberazione».

La tensione è cresciuta quando la polizia ha tentato di disperdere i manifestanti, inseguendo e arrestando decine di persone che si rifiutavano di allontanarsi. Durante gli scontri, almeno una attivista è stata leggermente ferita. Mostrando una mano insanguinata, ha denunciato di essere stata colpita da un manganello della polizia.

Il corteo che non è mai riuscito a raggiungere l’ingresso del gala sul lato est di Central Park, si è riversato su Park Avenue dove c’è stata una colluttazione tra alcuni manifestanti e un disturbatore in bicicletta che gridava contro i presenti. Alcuni veicoli della polizia parcheggiati lungo il percorso sono stati ricoperti di adesivi e scritte in favore di Gaza. La mobilitazione è durata fino alle 9 di sera, quando gli attivisti, dopo aver attraversato Park Avenue, sono confluiti nella Grand Army Plaza e hanno issato una bandiera palestinese sulla statua del generale William Tecumseh Sherman.

Alla manifestazione, lanciata dall’organizzazione antisionista Within Our Lifetime, hanno aderito anche i gruppi studenteschi della Columbia University, come Columbia University Apartheid Divest e Jewish Voice for Peace. I due gruppi erano in prima linea nell’organizzazione dell’accampamento pro-Palestina all’interno del campus da cui si è generata l’ondata di proteste che nei giorni scorsi è dilagata negli atenei americani e non solo. L’accampamento alla Columbia è stato sgomberato per la seconda volta il 30 aprile scorso, quando la polizia ha fatto irruzione nel campus arrestando oltre un centinaio di persone.

«Durante gli arresti la polizia di New York è stata brutale»,  racconta lungo il corteo Aidan Parisi, uno studente di 25 anni della School of Social Work della Columbia University. È uno degli studenti arrestati dentro l’Hamilton Hall, l’edificio della Columbia che era stato occupato e soprannominato Hind Hall in onore di Hind Rajab, una bambina di 6 anni morta a Gaza. «Hanno ammanettato diverse persone in stato di incoscienza, hanno sparato un colpo di pistola».

L’episodio dello sparo è stato confermato dal dipartimento di polizia che si è difeso sostenendo che il colpo sarebbe partito «accidentalmente» dalla pistola di un agente impegnato nelle operazioni di sgombero dell’edificio. Il proiettile sarebbe caduto per terra e non avrebbe causato feriti. Sul posto non c’erano osservatori esterni perché quando la polizia è entrata nel campus ha allontanato tutti i presenti, compresi i giornalisti e gli studenti della scuola di giornalismo che fino a quel momento avevano documentato l’occupazione. «La polizia ha creato danni alla proprietà, danni fisici, mandato numerose persone all’ospedale. Sono stati molto violenti», continua Parisi.

Gli studenti della Columbia che hanno partecipato alle proteste in prossimità del Met Gala si erano dati appuntamento intorno alle 16 di fronte ai cancelli dell’università ormai chiusi e presidiati notte e giorno da polizia e sicurezza privata. Il campus da oltre una settimana è in lockdown, né professori, né studenti possono più entrare, eccetto quei pochi che risiedono nei dormitori. La rettrice dell’università, Nemat Shafik, alle prime ore del giorno ha comunicato di aver annullato persino il commencement, la tanto attesa cerimonia di consegna delle lauree, per evitare che le proteste potessero rovinare l’evento a cui partecipano migliaia di persone ogni anno, tra studenti, professori, familiari e facoltosi donatori.

«Hanno praticamente trasformato il nostro campus in uno stato di polizia», dice Tali, una studentessa di 20 anni del Barnard College, l’istituto femminile affiliato alla Columbia da cui provengono molti degli studenti che protestano. Lei è tra le 108 persone arrestate durante il primo sgombero dell’accampamento di solidarietà alla Palestina, il 18 aprile scorso. «Ci sono agenti di polizia dappertutto. Non lasciano entrare nel campus nessuno che non viva lì. Ci sono migliaia di studenti che frequentano la Columbia University che non possono entrare nel campus in questo momento. Hanno chiuso le uscite e le entrate, hanno chiuso le biblioteche. In pratica hanno trasformato il campus in una sorta di luogo militarizzato per impedirci di usare la nostra voce e continuare a lottare».

Alla rettrice che ha dichiarato di aver chiamato la polizia la presenza di quelli che sono stati definiti «agitatori esterni», Tali risponde così: «Stanno cercando di screditare il movimento come se non provenisse dagli studenti. Cercano di dire che siamo stati radicalizzati, che tutto questo viene dall’esterno, per minimizzare il fatto che questo è ciò che gli studenti vogliono e per cui i giovani stanno lottando».

Tra le 44 persone arrestate dentro l’edificio della Columbia, oltre a 29 studenti c’erano anche 2 dipendenti dell’università e 13 esterni. Tra questi ultimi ha fatto discutere la presenza di James Carlson, un avvocato 40enne, coinvolto già in altre proteste come Black Lives Matter. I giornali americani hanno passato in rassegna la sua vita descrivendolo come il figlio di un milionario che vive in un appartamento da 3,4 milioni di dollari a Brooklyn. Ha fatto discutere anche la presenza di Lisa Fithian, una donna di 63 anni, membro del gruppo Extinction Rebellion. La storica attivista era presente durante l’ingresso degli studenti nell’Hamilton Hall e nei momenti più concitati dell’occupazione è intervenuta per dare consigli su come bloccare le porte del palazzo.

«Siamo tutti agitatori esterni», racconta ancora Aidan Parisi. Parte della sua famiglia è originaria di Napoli e si è sentito orgoglioso di sapere che anche all’università Federico II di Napoli, dopo la Sapienza a Roma sono sorti accampamenti di solidarietà alla Palestina sull’onda di quanto sta succedendo negli Usa. «Dagli Stati Uniti all’Italia, mi rende molto orgoglioso vedere che tutti si battono contro il sionismo, l’occupazione e il genocidio», conclude Parisi prima di riprendere il megafono ed incitare il corteo.