La Rai ha attraversato nel corso della sua storia diverse riforme, vere o false, belle o bruttissime: vedi l’ultima in ordine di tempo, votata per alzata di mano dal senato durante gli abbracci natalizi nel tardo dicembre del 2015, la maglia nera della serie. Ma non ha mai avuto una riforma protestante, in cui fosse chiarito che l’etica è alla base del servizio pubblico. Anzi, è il servizio pubblico. E, alla vigilia del rinnovo della concessione, il tema si fa ancor più serio.

Ecco, la questione squallida e penosa dei super-compensi intascati dall’amministratore delegato e da un bel gruppo di privilegiati ci dice che l’azienda di viale Mazzini non è in sintonia con il tempo. Che chiede ben diverso rigore rispetto ad un passato troppo compiacente, in cui tanti piccoli peccati diffusi coprivano i peccati, quelli mortali, del vertice. E poi non c’era la rete ad inchiodare alla verità e alla trasparenza chiunque. Gli omissis erano la regola. Ora, invece, la combinazione tra il tetto (240.000 euro) introdotto nella normativa per i compensi e dell’obbligo di pubblicizzarli on-line ha creato il caso.

L’ad guadagna 650.000 euro all’anno, lordi si dirà. Anche netti non si scherza. Adriano Olivetti sosteneva che il rapporto tra la funzione apicale e il semplice addetto dovesse stare nella forbice di dieci a uno. Alla Rai la base stipendiale ruota attorno a 15.000 euro, che arrivano a 50.000 per i funzionari e a 70.000 per i dirigenti. Fate un po’ di conti. Sopra il tetto stanno in tanti, da direttori di rete e testate, a responsabili di settore. Perché la Rai ha potuto fruire di così significative eccezioni?

Bella domanda, cui dovrebbe innanzitutto rispondere la commissione parlamentare di vigilanza, di cui il presidente Fico annuncia la convocazione a stretto giro. Magari ci si poteva pensare prima, dato che gli spifferi giravano da tempo. E visto che siamo in tema, aggiungiamo qualche ulteriore osservazione.
Come mai su 25 nuove entrate al vertice sulla scia di Campo Dall’Orto, ben 15 hanno contratti a tempo indeterminato? Non si contravviene al comma 3 dell’articolo 3 della legge 220/15, vale a dire la citata (contro)riforma, che parla per casi simili di tempi determinati? Ancora. Ha senso che si assumano professionisti dall’esterno a fronte della notevole ampiezza dell’organico interno? L’hanno sottolineato le organizzazioni sindacali, a ragione. Non solo. 25 tra direttori e dirigenti sono stati infilati in qualche stanza senza incarichi per avvicendamenti: pur pagati, ovviamente. Sembra il rovesciamento della leggerezza di Calvino, che incitava alla sottrazione, non all’addizione. Per non dire di chi è stato rimosso e ricompensato con numerose mensilità.

Tutto ciò sarebbe deplorevole persino in una società totalmente privata. Se parliamo del servizio pubblico, sorretto in larga misura dal canone di abbonamento pagato nella bolletta elettrica dai cittadini, la vicenda si aggrava. Le spese per l’apparato sono di circa un miliardo di euro, oltre la metà degli introiti pubblici. E’ stato sottolineato che il direttore generale della Bbc, riferimento d’obbligo di convegni e relazioni, guadagna di meno del corrispondente italiano. Insomma, serve una scelta impegnativa improntata alla moralità, prima della scadenza della concessione. Finita l’epoca della scarsità delle risorse tecniche e della angustia del settore, cui era legata il suo particolare primato nel sistema , per definirsi «servizio pubblico» la Rai si deve autoriformare. Proprio a partire da quel surplus di etica richiesto a chi non ritiene di limitarsi alla pura competizione di mercato.