“Maggio 2013. «Sono arrivata in treno, era notte. E quell’odore così particolare, acido, di cui mi avevano parlato, era reale». La prima volta a Taranto di Maria Tilli, abruzzese classe 1987, è in questa immagine. Arrivata per cominciare i sopralluoghi di un documentario da costruire, per trovare un racconto della città dell’Ilva. Ma origine e sostanza di ciò che avrebbe poi realizzato, le ha trovate più in là, quando in Puglia ci è ritornata, e dietro gli stabilimenti siderurgici ha scoperto una piccola baracca gialla, a pochi metri dalle acque del Mar Piccolo. «Era – continua – della famiglia Resta. In quel momento c’era Giuseppe. Ho scattato prima una foto, poi ho fatto alcune riprese, abbiamo così iniziato a scambiarci qualche parola, a conoscerci». Ecco come una regista nata a Lanciano ha trovato a Taranto La Gente Resta, prodotto da Fabrica e Rai Cinema, vincitore del Premio Speciale della Giuria all’ultimo Torino Film Festival, in “Italiana.doc”, e presentato nei giorni scorsi al Festival del Cinema Europeo di Lecce, tra i margini di “Vita e Lavoro”, uno dei vari segmenti tematici della sezione “Cinema & Realtà”.

«Prima avevo anche incontrato associazioni ed esponenti dell’ambientalismo – confessa la regista – ma la scrittura e la forma del film hanno preso altre direzioni. È chiaro che girare un film su quella che non è la tua terra può crearti più difficoltà, tuttavia può pure consentire di avere uno sguardo in qualche modo più libero, più osservativo. Di certo non mi interessava realizzare una sorta di inchiesta giornalistica, era fondamentale rintracciare piuttosto una poetica che mi appartenesse, e in questa terra così “cattiva” – cinica con se stessa dentro quel ricatto di salute/lavoro – mi è successo qualcosa di speciale, un’emozione che non so se ritroverò».

E dunque, Giuseppe, Cosimo e Tonino Resta. Fratelli, gente del quartiere Tamburi, il più inquinato d’Italia, quello dell’Ilva. Figli di una città dolente che però non hanno voluto lasciare, luogo che li ha fatti nascere – e crescere – pescatori per poi volerli in fabbrica: il primo come addetto alle pulizie, Cosimo come saldatore e Tonino, invece, capoturno in acciaieria. Ma che al mare tornano sempre, quando possono, con una rete da pesca, con il movimento del sommozzatore. Protagonisti che qui si narrano insieme alle loro mogli, ai figli, linee narrative che nascono e poi si incontrano. La Gente Resta, allora, è un film politico perché racconta un’umanità che resiste; perché, alle tesi e alle sentenze da cinema marchiato d’impegno, preferisce gli occhi degli uomini e delle donne, le storie che custodiscono, il gesto dei bambini, l’adolescenza immobile di un pomeriggio, in un reale messo nella forma di uno spazio altro, differente. Non è denuncia a effetto e non è un documentario sull’Ilva: «In effetti non lo è, del resto in fabbrica non potevamo entrare, ed è elemento che se visto nell’inquadratura è sullo sfondo, lo sfondo della loro vita: direi quindi, semmai, che è un film sugli effetti che questa sorta di divinità, questo enorme animale che non dorme mai, più grande della stessa città, ha avuto e continua ad avere sui protagonisti del documentario. Penso ad esempio a Iris, la figlia di Tonino: è una bambina bellissima, dolce, ma nel suo linguaggio, nel suo essere, si può riscontrare la violenza di questo assorbimento. L’aspetto più interessante, però, è che nella famiglia Resta c’è qualcosa di profondamente arcaico, tribale in un certo senso, che stride con la “spettacolarità” della fabbrica. Tra l’altro si sono visti per la prima volta sullo schermo qui a Lecce ed è stato importante sentirmi dire da loro che non ci sono bugie o mistificazioni nel film. Purtroppo con loro in sala non c’era Giuseppe, è morto un mese fa».

La Gente Resta è sguardo su questi destini che sono eco di altri nella memoria e nel tempo di una città, dentro una Storia che l’ha mutata, illusa, tradita, ripetutamente beffata. «E Taranto porta pienamente i segni delle sue contraddizioni e di quello che ha dovuto subire, ma non soltanto in chi la abita. Ecco, in certi momenti mi è sembrato di trovarmi in una sorta di piccola Miami, ma sinistramente surreale, con le palme e quelle case basse che negli anni hanno assunto un altro colore a causa delle polveri tossiche». Parole di una giovane regista che si è diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma e ha già diretto vari cortometraggi più un documentario collettivo, Al centro del cinema; che dice di amare lo sguardo di Roberto Minervini e che lavorando per la televisione, nel programma di MTV 16 anni e incinta, ha trovato storie e persone rivelatesi essenziali – dice – «per giungere a un certo grado di empatia con i personaggi raccontati e le loro vicende, gravidanze in età minorenne, un lavoro emotivamente forte, catartico perfino. Ma per le emozioni non esiste una tecnica». E anche con i Resta – prosegue – «per me e per Laura Grimaldi, la sceneggiatrice (al soggetto, con loro, anche Lea Dicursi, da cui è partita l’idea del doc, ndr), è stato importante lavorare su certe emozioni. Penso alla scena della discussione in casa tra due dei fratelli: l’abbiamo “costruita” ma non c’era manipolazione: la tensione era vera, c’era davvero un contrasto profondo ma fino a quel momento sotterraneo tra i due, con uno più preoccupato – dal timore di rischiare il posto di lavoro – e l’altro più deciso e convinto delle proprie parole e azioni di protesta. Qui, e in tutto il film, da queste persone sono arrivati solo atti estremamente spontanei, onesti, generosi. Credo ci sia una necessità del reale che il cinema sta sempre di più riscoprendo, e di questo c’è da esserne lieti».

Un reale che in un film della durata di un’ora, partito come un settaggio drammaturgico e progressivamente fattosi corpo, diramazione, geografia dell’umano, si rivela pienamente nella parte finale, dove i fratelli e le loro mogli, i figli, alla sera, sono una comunità che fa festa, mangia, beve, si diverte. «È il momento – conclude la Tilli – che rompe con tutto. Quello in cui sono più vicini all’Ilva, insieme, eppure qui davvero la loro storia esiste a prescindere dalla fabbrica. L’Ilva, alla fine, non esiste più».