«No, non ho più la forza di sopportare. Dio! che cosa fanno di me! Mi versano in testa acqua fredda. Non mi ascoltano, non mi vedono, non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perchè mi torturano? Che cosa vogliono da me, poveretto? Salvatemi! Portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! A cassetta, mio cocchiere; tintinna, mia campanella; impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Ecco che il cielo turbina davanti a me; lontano brilla una stellina; sotto di me corre la foresta con gli alberi scuri e con la luna; una nebbia bluastra si stende sotto i miei piedi; nella nebbia vibra una corda; da una parte c’è il mare, dall’altra l’Italia; ecco che si vedono anche le izbe russe. È la mia casa quella che azzurreggia lontano?»

Così, nelle righe conclusive del Diario di un pazzo,Nikolaj Gogol’ affida al suo protagonista, l’impiegato folle Poprišcin, il compito di prefigurare quella curiosa illusione ottica che, puntualmente, si verificherà due anni più tardi nel marzo 1837, quando lo scrittore ventisettenne, dopo un tortuoso viaggio attraverso la Germania e la Francia, mise per la prima volta piede in Italia. In fuga da se stesso, ma anzitutto dall’incomprensione che, a suo dire, la critica aveva colpevolmente riservato alla messinscena del Revisore, Gogol’ approderà a Roma nell’imminenza delle festività pasquali, per constatare come l’immagine delle izbe patrie annerite dal fumo si fosse sovraimpressa, in maniera tanto incongrua quanto fatale, al paesaggio esotico di rovine e pini marittimi.

«Che dirti in generale dell’Italia? L’impressione che ho è di essere capitato da possidenti ucraini di vecchio stampo», scriverà il 15 aprile all’amico Aleksandr Danilevskij, citando il titolo di un proprio racconto e osservando come le porte decrepite delle case, i candelabri polverosi e i cibi cucinati all’antica che l’avevano accolto nella città eterna contrastassero decisamente con il «quadro di cambiamenti» della modernità che lo aveva colpito fino ad allora, a Parigi e altrove. A Roma invece la sensazione che tutto si fosse «fermato in un punto» e non riuscisse più ad andare avanti, l’aveva riportato inaspettatamente a casa.

«Io son nato qui. Mi sono di nuovo risvegliato in patria», assicura in aprile al poeta Zukovskij, precisando poi come tale termine fosse da intendersi ovviamente in una accezione tutta spirituale, come quell’autentica patria dell’anima che lo scrittore abitava ancor prima di venire al mondo. Una sorta di variazione sul tema codificato da Lord Byron con l’apostrofe «Oh Rome! My country! City of the soul!» nel Childe Harolds Pilgrimage, che dimostra la natura innanzitutto letteraria dell’esperienza vissuta da Gogol’ a sud delle Alpi.
Se infatti la Russia, Pietroburgo, e tutto ciò che aveva contrassegnato la vita precedente di Gogol’ («la neve, i mascalzoni, il teatro») non si erano rivelati altro che un increscioso equivoco, un equivoco ora svanito al pari di un sogno, non meno onirica e mediata dalle sue invenzioni letterarie è l’immagine dell’Italia restituita in modo capriccioso dalle lettere inviate ad amici e parenti.

Assolato, sonnolento e decadente, surrealmente affine all’Ucraina immobile della tenuta natale di Vasil’evka, il Bel Paese non sarà per lo scrittore – almeno in un primo momento – terra di illuminazioni repentine o rivolgimenti spirituali, bensì una scenografica tribuna da cui infondere nuova linfa alla propria fisionomia di vate della nazione, nonché accreditare tutta una serie di leggende, più o meno fortunate, su di sé. Prima tra tutte, quella – ripetuta fino a trasformarsi in un trito cliché – del romanziere che può scrivere della Russia solo standosene a debita distanza, ad esempio in Italia. Un mito bifronte che trova il proprio rovescio nell’immagine vittimistica dello scrittore incapace di liberarsi del pensiero della madrepatria anche quando soggiorna in altri lidi. Invidiabile l’abilità di Gogol’ nell’utilizzare questo argomento retorico per rispondere, quattro giorni dopo l’arrivo a Roma, all’affondo di Michail Pogodin, futuro redattore della rivista «Il Moscovita», che lo reclamava in patria.

Pur ammettendo di vivere da quasi un anno in terre straniere, «ricche d’arte e di uomini» quali la Francia o la Germania, il fuggiasco capitolino riesce a ritorcere contro Pogodin il fatto che la sua penna non si è ancora decisa a descrivere oggetti «che potrebbero incantare chiunque. Nemmeno una riga ho saputo dedicare a ciò che mi è estraneo. Sono incatenato con ceppi invincibili a quanto è mio, e preferirei il nostro povero, il nostro scialbo mondo, le nostre izbe affumicate, gli spazi nudi ai più bei cieli che mi guardano amabili». Ma la più riuscita tra le tante costruzioni mitopoietiche che Gogol’ eresse intorno a sé dal suo «esilio» romano, fu la voce più (che iniziò a circolare incontrollata a partire dalla medesima lettera del 30 marzo indirizzata a Pogodin) secondo cui Puškin, prima di cadere in duello il 29 gennaio di quello stesso anno, gli avrebbe «donato» il soggetto per le Anime morte.

Il tragicomico viaggio di Cicikov, scritto in gran parte a Roma al civico 126 di via Sistina (allora via Felice), sarebbe stato dunque concepito sotto i migliori auspici, a partire dall’idea regalata dal letterato più anziano al suo giovane rivale secondo una prassi già avviata con lo stesso Revisore. Una teoria che, come ha dimostrato in maniera convincente Shmuel Schwarzband, non risulta suffragata da fonti estranee allo stesso Gogol’ e che, anzi, appare implicitamente smentita dalla relativa freddezza intervenuta tra i due autori (d’altronde, mai particolarmente intimi) dopo la polemica seguita alla pubblicazione sul «Contemporaneo» di un articolo di Gogol’ assai tranchant dal quale Puškin, editore della rivista, si era visto costretto a dissociarsi.

Appena giunto nella città eterna, Gogol’ si affrettò a calarsi nel ruolo di esecutore delle ultime volontà del poeta («io devo continuare la grande opera che ho iniziato; Puškin si è fatto dare la mia parola che l’avrei scritta»), autoelevandosi così a suo erede. Per adempiere a questo «sacro testamento», egli rivendicava pertanto la necessità di starsene il più lontano possibile dalla «gentile accolita dei nostri illuminati zoticoni», ossia da quella pletora di critici a sua detta incompetenti che avevano scorto nel Revisore «solo» una geniale farsa, e non una tragedia, com’era nelle intenzioni dell’autore. Respingendo l’invito di Pogodin a tornare in Russia, Gogol’ dichiarava di non voler certo «ripetere l’eterna sorte dei poeti nella loro patria» – allusione alquanto trasparente al destino dello stesso Puškin, stroncato anzitempo dagli intrighi di palazzo dopo essersi visto negare più volte dallo zar Nicola I l’autorizzazione per recarsi all’estero.

Solo il conforto di quella madrepatria spirituale – l’Italia – dove la sua anima abitava da sempre, avrebbe consentito a Gogol’ di portare a termine l’opera «sovrumana» affidatagli da Puškin e iniziata sotto il segno della predestinazione: «…la mano onnipotente della provvidenza mi ha gettato sotto il cielo sfolgorante dell’Italia, affinché io dimentichi il dolore, gli uomini, tutto, e mi inebri completamente delle sue opulente bellezze», così scriverà a Vasilij Zukovskij in ottobre, ringraziandolo peraltro di averlo aiutato a convincere il sovrano a concedergli quel sussidio tanto rozzamente materiale, quanto indispensabile per svernare in tutta tranquillità nella Città Eterna. Il soggiorno di Gogol’ a Roma travalica dunque le finalità formative del Grand Tour,per trasformarsi in una missione artistica destinata sia a ridefinire la sua fisionomia di scrittore, sia a trasfigurare l’annoso dibattito tra occidentalisti e slavofili nella prospettiva cangiante di un discorso autoriale fondato sulle categorie a doppio taglio della distanza e della nostalgia.

Ma com’era capitato lo scrittore da Pietroburgo a Roma? Pare ormai assodato che Gogol’ approfittò del successo commerciale del Revisore per realizzare un sogno che doveva nutrire da tempo, visto che l’immagine – sia pur stereotipata e libresca – del Bel Paese dominava una delle sue prime opere note in assoluto, quella poesia intitolata Italia che uscì su rivista nel 1829, quando il suo autore aveva solo diciannove anni. È in queste ottave – certo non originalissime – che compare quel topos paradossale della nostalgia per un’Italia ancora non raggiunta fisicamente, eppure già irrimediabilmente rimpianta, che riaffiorerà più volte nelle pagine a venire. Paradiso perduto di cui l’anima serba un pallido ricordo, l’Italia resterà per Gogol’ anche in futuro un’immagine anzitutto interiore, condizionata da fantasticherie a distanza e letture, impossibile da cogliersi in una improbabile, vergine purezza. Da qui l’esigenza di riattivizzare tale visione, incastonandola anche a forza in un’ottica «comparativa» alimentata da andirivieni convulsi e pressoché ininterrotti.

È noto che Gogol’ non fu tanto affascinato da Roma appena vi giunse per la prima volta il 16 marzo 1837 (o il 28 marzo «nello stile dell’orso», ovvero secondo il calendario giuliano, come osservò ironicamente), bensì al suo rientro nell’ottobre di quello stesso anno, quando la partenza a lungo rinviata da Baden-Baden e Ginevra a causa di un’epidemia di colera che aveva svuotato Roma gli permise definitivamente di reinventarla sotto le mentite spoglie della «patria sì bella e perduta»: «Se sapeste con quanta gioia ho lasciato la Svizzera e sono volato verso la mia amata, l’Italia! Essa è mia! Nessuno al mondo me la porterà via!», scrive a Zukovskij, una volta «risvegliatosi» nella sua culla di elezione.

Nasce qui quel paradigma contrastivo con l’Europa situata appena più a nord delle Alpi che caratterizzerà molte delle pagine più famose dedicate da Gogol’ all’Italia e che si lascia sintetizzare nella formula alquanto drastica: «Tutta l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci». Se, secondo lo scrittore, «chi è stato in Italia può dire addio agli altri paesi», dacché è condannato ad avvertire ovunque lo stesso «respiro d’orso del Mare del Nord», d’altro canto incursioni assai frequenti in quella che egli tratteggia come barbarie settentrionale gli furono indispensabili per resuscitare ogni qual volta, con maggiore o minor fortuna, il senso della scoperta del sud. La linearità e la gradualità della discesa verso il Meridione che aveva contraddistinto altri celebri viaggi – su tutti quello di Goethe – si frantuma qui in un susseguirsi frenetico, quasi ossessivo, di toccate e fughe: tra il marzo 1837 e il gennaio 1848, Gogol’ soggiorna ben otto volte in Italia, e per otto volte se ne allontana, scacciato dai demoni dell’irrequietezza e dell’ipocondria per rimbalzare, come una pallina da flipper impazzita, da Napoli a Mosca, da Marienbad a Gerusalemme, tra cure termali, crisi mistiche e livorosi scontri con critici ed editori.

Un cronotopo complesso, quello del «romanzo italiano» di Gogol’, all’interno del quale gli intervalli di relativa stasi a Roma acquistano una evidente centralità. Se infatti l’entusiasmo dello scrittore per il Bel Paese fu certamente forte e indiscriminato («sapete meglio di me che tutta Italia è un boccone da ghiotto ed io bevo la sua aria balsamica a creppagozza, in modo che par altre forestieri non ne reste niente», scriveva in un italiano pittoresco alla sua ex allieva Marija Balabina), va detto che alla Città eterna egli tributa un culto quasi esclusivo, tramutandola in pietra di paragone per determinare il valore di checchessia – dal cielo di Napoli (quello di Roma è più blu, osserva deluso da Castellammare) alla qualità dei gelati («un gelato così tu non te lo sei mai neanche sognato!» scrive a Danilevskij. «Non quella porcheria che mangiavamo a Tortona»).

Malgrado l’irrequieto Gogol’ avesse girato l’Italia in lungo e in largo, toccando anche luoghi assolutamente decentrati rispetto alla topografia obbligata del Grand Tour – come si evince dall’esperienza culinaria tortonese – ben poco spazio è concesso nell’epistolario a qualsiasi altra città non sia Roma. Torino vi figura unicamente in virtù dei suoi «ottimi biscotti da tè», Milano se la cava un po’ meglio grazie alla sua cattedrale «simile a un merletto», e Pisa si riduce a una esilarante quinta teatrale, invasa com’è «da un’incalcolabile moltitudine di miss, bulldog e altri gentlemen inglesi». Ma, senza dubbio, è Napoli (meta prescelta per l’estate 1838) a subire il trattamento più ingrato: dopo aver rapidamente esaurito l’iniziale entusiasmo con una gita in barca alla Grotta Azzurra e aver descritto in termini stereotipati il Vesuvio «che sputa fumo e fiamme», Gogol’ sbotta irritato: «No, Roma è meglio. Qui c’è afa, polvere, sporcizia. Roma sembra Parigi in confronto a Napoli, sembra elegantissima. Gli italiani qui non si riconoscono, bisogna ricorrere al bastone – peggio che da noi in Russia». Righe impietose da cui, oltre alla comprensibile stizza per un’estate insieme «fredda e soffocante», trapela anche una larvata polemica nei confronti di quel primato di Napoli su Roma teorizzato da Johann Wolfgang von Goethe nel suo Viaggio in Italia, là dove egli scriveva che, in confronto alla superba posizione della città partenopea, l’Urbe incastrata nella valle del Tevere dava l’impressione di un monastero mal situato.

Se Goethe era stato a suo tempo uno dei referenti essenziali di Gogol’ nella costruzione di un mito personale del Bel Paese, e se la stessa lirica giovanile Italia può essere interpretata come un adattamento sui generis del Canto di Mignon (per il tramite del solito Zukovskij che nel 1817 l’aveva «russificata» in Mina), va anche detto che, una volta giunto nella Città Eterna, lo scrittore russo si ribellerà alla posizione filologica e antiquaria del suo illustre predecessore, che sosteneva la necessità per il visitatore di «scovare pezzetto per pezzetto, nella nuova Roma, l’antica» (ossia quella «autentica»), malgrado la «dura e contristante fatica» che un simile esercizio poteva procurare. Al contrario, Gogol’ tuonerà contro quegli stranieri che, «devoti solo a Tito Livio e Tacito», si precipitavano verso le rovine, tralasciando tutto il resto, e che «in un accesso di nobile pedanteria» avrebbero voluto demolire tutta la città nuova. Per l’autore delle Anime morte infatti il fascino di Roma si risolveva in un prodigioso continuun visivo dove antico e moderno erano ormai fusi l’uno nell’altro e inestricabili, come un vetusto architrave inglobato in una costruzione recente.

La diatriba a distanza con Goethe – indicativa dell’approccio originale di Gogol’, irriducibile a sentieri già battuti – è un leitmotiv che riaffiorerà in forma più o meno velata nell’epistolario e altrove. Una allusione ironica al poeta di Weimer si scorge là dove lo scrittore russo, dopo l’arrivo a Roma, osserva di aver «rispettato una vecchia regola», affrettandosi subito ad andare a vedere il papa, dal momento che, com’è noto, Goethe aveva anticipato la sua partenza da Firenze pur di arrivare all’ombra di S. Pietro in tempo per le celebrazioni di Ognissanti che immaginava magnifiche. Ma la stoccata più evidente è la decisione di collocare l’unica sua opera d’ambientazione italiana, vale a dire il frammento in prosa Roma, sullo sfondo di quell’evento che tanto aveva indignato Goethe per la sua informe sfrenatezza, vale a dire il carnevale in via del Corso. A dispetto del creatore di Mignon («Descrivere questa baldoria è tempo sprecato!…»), Gogol’ dedicherà pagine estasiate a quella tradizione ora dimenticata. Se la descrizione della sfilata aveva destato in Marija Ivanovna, madre dello scrittore, addirittura una certa irritazione nei confronti del figlio esterofilo e assenteista («Mammetta scrive che anche da noi ci sono le maschere, poi, come al solito, aggiunge un invito a tornare a Vasil’evka, e dice che il clima ucraino è lo stesso dell’Italia»), in Roma invece il carnevale segnerà il culmine del ravvicinamento del protagonista alla città natale dopo gli anni di formazione trascorsi a Parigi.

A quanto emerge dall’epistolario, Gogol’ scrisse questo racconto obtorto collo per la rivista di Pogodin «Il Moscovita», dopo essersi più volte fatto pregare e aver scongiurato l’amico di non distrarlo con inopportune richieste dal «sacro compito» della stesura delle Anime morte («se sente battere in petto un sentimento russo d’amore per la patria, lui deve esigere da me che non gli mandi nulla!»). Eppure una sensazione di levità emerge da queste pagine in cui l’autore tira le fila delle proprie esperienze capitoline (la contiguità con le lettere è evidente), attribuendole a un principe locale che, al rientro a Roma, rivaluta la quieta solennità della sua patria rispetto allo scintillio vano della capitale francese, qui rappresentata secondo gli stilemi del più ovvio misogallismo.

Questo esile spunto narrativo permette a Gogol’ di resuscitare le impressioni del suo ritorno a Roma nell’ottobre 1837 e, insieme, di creare un virtuosistica fuga di specchi in cui ciò che è familiare finisce per riflettersi in ciò che è estraneo. Al termine del soggiorno a Parigi (che per lui, figlio del Sud, non è che una sorta di viaggio in Italia alla rovescia), il principe romano per riappropriarsi della sua città deve infatti diventare «simile a uno straniero» che vaga instancabilmente per le strade, scoprendone di giorno in giorno la bellezza.

In maniera speculare il forestiero Gogol’ si lamenterà intorno al 1842 di non essere più capace di ammirare Roma con l’«attenzione trepidante del novellino», dacché la città è già tutta dentro di lui come «una reliquia». E, in effetti, i molti conoscenti che faranno visita allo scrittore nella Città Eterna non mancheranno di rilevare l’orgoglio con cui faceva loro da cicerone, quasi come se Roma fosse stata opera sua.
Se nel febbraio 1839 Gogol’ scriverà a Danilevskij di aver ricominciato per la quarta volta «la lettura di Roma» (stavolta insieme a Zukovskij, con cui si recava al Foro a disegnare), la sua «scrittura» – così come emerge dall’epistolario e da Roma – fu certamente un processo che si andò compiendo nel segno delle ultime opere pubblicate in patria prima della partenza e, soprattutto, con i Racconti di Pietroburgo. In uno spirito analogo, l’idillio gogoliano con la città eterna è una storia di anamorfosi, bizzarri inganni ottici, spazi che si dilatano capricciosamente e si restringono, dettagli architettonici che, di colpo, prendono vita per stupire il passante con la loro insospettata esuberanza. Barocca e paradossale, Roma è a un tempo città e campagna («è enorme, eppure in due minuti potete già ritrovarvi nei campi»), popolosa e spettralmente deserta, dominata da monumenti che l’autore chiama confidenzialmente per nome (su tutti «Pietro») e che però non hanno mai due volte di seguito lo stesso aspetto o le stesse dimensioni. Così, assai naturale appare lo stratagemma che lo scrittore vorrebbe poter mettere in atto per rimediare a questa inafferrabilità visiva e compenetrarsi definitivamente della città a lui tanto cara: «…sovente mi viene lo sfrenato desiderio di trasformarmi tutto in un naso e che non esista nient’altro, né occhi, né braccia, né gambe, ma solo un grandissimo naso con le narici grandi come due bei secchi, per aspirare quanto più possibile il profumo e la primavera».