La copertina nera, di carta ruvida, che la casa editrice Frassinelli riserva all’ultimo romanzo di Dinaw Mengestu, riproducendo mimeticamente la versione originale della Alfred A. Knopf, è già una dichiarazione di intenti. La mano infantile che col gessetto scrive sulla lavagna il nome dell’autore e tira una riga sul titolo in stampatello maiuscolo – Tutti i nostri nomi – si ripropone con altrettanta assertività sulla quarta di copertina: siamo tutti prigionieri di un nome. A prima vista potrebbe sembrare un ammiccante esercizio estetico, ma a ben pensarci la pelle nera e granulosa che riveste il libro è l’indizio più eloquente del filtro attraverso cui le storie ci vengono raccontate.

I romanzi di Dinaw Mengestu, nato ad Addis Abeba nel ’78 e cresciuto alla periferia di Chicago dopo la fuga dal Terrore rosso, si inseriscono nella cosiddetta «letteratura della diaspora» accanto a opere quali Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi 2014), Città aperta di Teju Cole (Einaudi 2013), Il prezzo di Dio di Okey Ndibe (Edizioni Clichy 2015), La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi 2013), scrittrice, quest’ultima, alla quale si deve anche il neologismo «Afropolitan» per definire questa brillante e dinamica generazione di afroamericani o afroeuropei. Vivere nel flusso di una dimensione transnazionale e transculturale – talvolta per scelta, spesso per necessità – significa affrontare svariate questioni di appartenenza, e dunque di identità, a cui Mengestu si dedica con stile e risolutezza nei primi due romanzi, Le cose che porta il cielo (Piemme 2008), e Leggere il vento (Piemme 2011), riscuotendo consensi tanto immediati e unanimi da essere segnalato dal New Yorker tra «i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni» e tributato di un «Genius» Grant dalla MacArthur Foundation.

Addestrato all’osservazione da anni di militanza giornalistica nell’Africa sub-sahariana, lo scrittore non si limita a riportare «storie di immigrazione», bensì si adopera a sviscerare la complessità di quell’esperienza, affrancandola dai consolidati discorsi letterari sull’alterità e sul postcolonialismo, e tentando invece di decifrare il modo in cui l’Occidente si mette in relazione con l’Africa: «Lasciamo i nostri paesi, ci spostiamo in posti nuovi, diventiamo padri, mariti, mogli, madri. E ogni volta che ci adattiamo a una nuova condizione, si espandono le possibilità rispetto a chi siamo o a chi possiamo diventare». Tutti i nostri nomi (Frassinelli, traduzione dall’inglese di Mariagiulia Castagnone, pp. 280, euro 16,00) è un’acuta e spietata perlustrazione di queste possibilità.

I due narratori, Isaac e Helen, alternano le loro diversissime voci per raccontarci più di una storia d’amore: quella interrazziale che li unisce e che viene consumata in silenzio («il modo più semplice per limitare i danni» che la parola potrebbe scatenare); quella di Isaac verso il grande amico (Isaac Mabira) da cui erediterà il nome, «il dono più prezioso»; e quella di entrambi per le rispettive madri che, più verranno rifiutate, più torneranno a rammentare le loro radici e i loro percorsi.

«From roots to routes» recita la nota espressione della lingua inglese per illustrare, giocando sull’omofonia delle due parole, una nuova e necessaria prospettiva interculturale: il recupero delle radici (roots) che riconducono a una patria originaria (intesa come entità geografica, politica, storica) si fa sempre meno rilevante dei percorsi (routes), ovvero della memoria della diaspora, la cui dimenticanza sarebbe un «crimine contro la nazione», uno dei tanti che Isaac Mabira annota sulla pagine di un taccuino come estremo atto d’amore per l’amico etiope.

«Quando sono nato», dichiara il protagonista, «avevo tredici nomi, uno per generazione (…) eravamo gli unici a essere nati e morti in quella terra». Ma, lungi dall’essere una ricchezza, quel patrimonio è piuttosto un peso insostenibile: «avevo la sensazione di essere nato in una prigione»; così il ragazzo implora il padre di lasciarlo partire, di liberare il suo »Uccellino», nomignolo che ricevette quando era poco più di un bimbetto. Cancellare i propri nomi, azzerare la storia personale, è un necessario atto di svestizione per poter indossare un nuovo habitus, per poter reinventare una nuova identità: «Quando arrivai a Kampala non ero nessuno: proprio come desideravo» e la città, a sua volta, si dimostra un luogo ideale perché «non apparteneva a nessuno, come me, e ognuno poteva accampare delle pretese su di lei». Sicché, ispirato da un famoso convegno di scrittori africani e inseguendo il sogno di entrare a far parte di quella categoria, si spaccia per studente di letteratura e ciondola per il campus dove incontra Isaac Mabira, «cane randagio» e «impostore» come lui, riconoscendolo dalle scarpe malconce come son semblable, son frère. Sarà Mabira ad affibbiargli tutta una serie di nomi nuovi e con essi di nuove potenzialità: Langston (omaggio al poeta Hughes), il Professore, Ali, chiamandolo una sola volta – l’ultima, prima della loro separazione – con il nome che il padre gli aveva dato in origine e di cui noi lettori conosciamo solo l’iniziale «D».

Sono gli anni settanta e l’innocenza e l’idealismo che i due condividono all’inizio dovranno presto scendere a patti con la crescente brutalità della «rivoluzione di carta». E poco importa se la storia – tanto dell’Uganda quanto quella letteraria – si presenta nel romanzo con contorni frastagliati: Mengestu non cita mai il nome del presidente, ma lo spettro del «macellaio» Idi Amin Dada è inequivocabile; l’università non è mai nominata, ma Makerere è il nome che possiamo attribuirle con certezza; il convegno è solo distrattamente citato, eppure non sfugge l’eco rimbombante delle parole di Ngugi Wa Thiong’o che in quello storico incontro del 1962 insisteva sull’urgenza di una definizione di «letteratura africana» e sullo spinoso dilemma della lingua: «Le pallottole sono state il mezzo dell’assoggettamento fisico. La lingua è stata lo strumento dell’assoggettamento spirituale», ha scritto in Decolonizzare la mente (Jaca Book 2015).

La lingua di Isaac, non a caso, è quella letteraria appresa dai romanzi di Dickens dal quale, a sua insaputa, riceverà anche il soprannome.
Il tema della carta percorre anche il racconto di Helen, l’assistente sociale che per prima accoglie Isaac in una cittadina rurale del Midwest americano dove «lo straniero» in questione non è esattamente un sans papier ma è come se lo fosse: il dossier a lui destinato «non conteneva quasi niente, tranne un foglio con il nome e la data di nascita», seguiti da un breve paragrafo in cui si dichiarava che era venuto in America grazie a uno scambio culturale; «quanto al luogo, c’era scritto Africa, senza lo Stato o la città di provenienza. L’unica cosa precisa era il suo nome, Isaac Mabira, ma persino questo avrebbe potuto essere falso». La solitudine di Helen incontra la disperazione di Isaac e l’intensità della loro relazione si fonda sulla dipendenza reciproca per sfociare, infine, in una possibilità di redenzione per entrambi.

Certo non sarà affare di poco conto. Persino Helen, nonostante il suo impulso rivoluzionario, dovrà scendere a compromessi con le preclusioni di una comunità bigotta e razzista che non fa mistero della sua ostilità: «Adesso lo sai. È così che ti fanno a pezzi, piano piano», afferma Isaac laconico durante una penosa scena di discriminazione in un ristorante locale. E nemmeno un paio di scarpe adeguate o un nome nuovo avrebbero potuto rivelare ciò che sarebbe stato percepibile soltanto in filigrana.