Nato in Spagna nel 1949 ma trasferitosi in Messico fin da bambino, Paco Ignacio Taibo II è considerato da tempo come una delle voci più significative del giornalismo e della narrativa del paese latinoamericano. Lungo una carriera trentennale contrassegnata da oltre una cinquantina di opere tra fiction e storia, noir e romanzo politico, ha toccato praticamente ogni sorta di genere letterario, passando dalle inchieste del bizzarro detective Héctor Belascoarán Shayne alle biografie narrative di Che Guevara e degli eroi della Rivoluzione messicana, fino a un omaggio a Emilio Salgari.

Grazie a la Nuova frontiera che pubblicherà alcune delle sue opere più importanti – a settembre toccherà a La bicicletta di Leonardo -, a circa vent’anni dalla sua prima uscita torna ora uno dei libri più avvincenti e sorprendenti di Taibo, A quattro mani (pp. 436, euro 19). A prima lettura sembra un poliziesco di taglio storico, vincitore nel 1991 del Premio Hammett, nelle cui pagine si incontrano Stan Laurel, Houdini, Pancho Villa, Trotski, spietati narcos, vecchi anarchici, giornalisti investigativi e una misteriosa unità della Cia denominata «Dipartimento merda», il romanzo ha in realtà contribuito a creare un nuovo genere a metà strada tra il giallo e il romanzo d’avventura.

«A quattro mani» sembra riunire già molti degli elementi che hanno poi caratterizzato buona parte della sua opera, è così?

Malgrado sia passato del tempo, ricordo come scrivere questo libro sia stata una follia. E come se avessi voluto infilare sedici diversi romanzi in uno solo, tanti erano i riferimenti, gli spunti e le idee che mi si agitavano per la testa. Era un sforzo un po’ suicida, perché chi è che sacrificherebbe così tante tracce narrative per portare a termine un solo libro, quando potrebbe invece immaginarne addirittura una serie con tutto quel materiale? E invece, più elementi mi si affollavano di fronte e più decidevo di farli confluire nella storia. Diciamo che ho assaporato fino in fondo la felicità dell’eccesso.

Una formula, quest’ultima che può tornare utile per definire l’insieme del suo lavoro, visto che nell’arco di più di quarant’anni si è cimentato con molti generi letterari?

La ricerca dell’eccesso significa questo: se non si rischia niente non ci può essere davvero letteratura. Non parlo di un qualche tipo di esperimento narrativo studiato a tavolino, ma del rischio che ci assume prima di tutto con i lettori, inventando insieme a loro, testando il loro piacere di affrontare situazioni o personaggi nuovi senza sosta. Molti altri scrittori latinoamericani praticano l’eccesso della parola, io preferisco da sempre l’eccesso dell’aneddoto, vale a dire il moltiplicare le avventure, le peripezie, gli intrecci. In una parola, la dimostrazione concreta che viviamo in un mondo complicato e che non possiamo che stare al gioco e misurarci con tutto ciò.

L’idea della letteratura come rischio sembra imparentata a quella di conflitto, tema che rappresenta il principale filo conduttore dei suoi romanzi, a cominciare dai polizieschi. Ne consegue una domanda facile: quale è il rapporto tra ciò che da voi si chiama «novela negra» e la rivoluzione?

I meccanismi narrativi del romanzo poliziesco in genere si mettono in opera a partire da un’indagine. E anche la storia della rivoluzione verte su un’indagine, quella che ha che fare con il contesto sociale e politico in cui prende forma, che la rende possibile o la suscita. Perciò si può ispirarsi in modo legittimo alle tecniche di indagine del giallo e del noir per raccontare dello spirito rivoluzionario nel corso del tempo. Mentre le grandi passioni che attraversano le fasi rivoluzionarie della storia hanno di per sé qualcosa di intrinsecamente narrativo. Insomma, è come se questi elementi convergessero gli uni verso gli altri.

Dopo i primi romanzi, ha cominciato ad occuparsi sempre più spesso anche di vicende storiche in senso stretto con le biografie di Guevara e Villa o con la contro-inchiesta sui fatti di Alamo. È cambiato il suo rapporto con la storia?

È cambiato soprattutto il mio modo di scrivere di tali vicende. Mi interessa e mi affascina la possibilità di occuparmi dei fatti e dei protagonisti della storia in termini narrativi, scrivendone come si trattasse di soggetti per un romanzo o un film, malgrado non abbiano in realtà nulla a che fare con la fiction.

Dalla storia dell’America Latina alla sua realtà odierna. Dopo aver acceso molte speranze nell’ultimo decennio, la sinistra è in crisi. Cosa pensa accadrà?

Sono convinto che malgrado le sconfitte elettorali o le crisi che si registrano ora in alcuni paesi, si debba guardare alla situazione sul lungo periodo, con ondate che si succedono a quelle precedenti, talvolta facendo avanzare le cose, talvolta retrocedendo un po’. In questo senso la cosa più importante che si è prodotta negli ultimi anni è che la sinistra latinoamericana è tornata, come ai tempi del Che, a pensarsi come un fenomeno continentale e non come la sommatoria di singole realtà nazionali.

«A quattro mani» si apre a Ciudad Juarez e mostra, al pari di altri suoi romanzi, gli infiniti intrecci tra le vicende del Messico e degli Stati Uniti. Come guarda agli Usa dalla loro sponda sud?

Sono uno di quelli che non si stanca mai di ricordare che la California è stata fino a poco più di un secolo fa una regione messicana e che gli yankee dovrebbero restituirci immediatamente Hollywood. Naturalmente amo molte cose della letteratura e del cinema statunitensi ed ho molti amici e compagni in quel paese, ma visti dal Messico gli Usa rappresentano da sempre soprattutto una minaccia.

Nel 2012, quando scrisse il suo libro su Alamo, si augurò che il successore di Obama fosse un ispanico, oggi come guarda al rischio che alla Casa Bianca arrivi invece uno come Trump?

In effetti, quando qualche anno fa ho deciso di smontare il mito hollywodiano di David Crockett e raccontare dal punto di vista dei messicani la famosa battaglia di Alamo del 1836, ho pensato di dare il mio piccolo contributo al movimento dei latinos che conosce un grande risveglio negli Stati Uniti, un po’ come accadeva negli anni Settanta agli afroamericani, quando i libri sulla schiavitù o il recupero delle loro radici africane contribuirono a una nuova presa di coscienza, a una nuova consapevolezza di sé. Alla fine, almeno per il momento non c’è però alcun ispanico in corsa per la presidenza. Quanto a Trump è uno stupido molto pericoloso. Che altro posso dire? Che per fortuna non voto negli Stati Uniti.