Maamoun Abdulkarim è uno studioso di archeologia romana e professore all’Università di Damasco, dove – dal 2009 al 2012 – è stato a capo del Dipartimento di Antichità. Nel 2012, col precipitare della crisi siriana, è stato nominato direttore generale delle Antichità e dei Musei, ruolo che ricopre a tutt’oggi.
Nel 2014, per il suo impegno nella salvaguardia del patrimonio siriano, l’Unesco gli ha conferito il prestigioso Cultural Heritage Rescue Prize. «Appena assunto l’incarico, che svolgo senza retribuzione alcuna, ho provveduto a chiudere i musei e a trasferire le collezioni in luoghi sicuri – ci dice al telefono da Damasco – . Questo piano ha permesso di portare in salvo più di trecentomila oggetti, che rappresentano un secolo di ricerche effettuate da missioni archeologiche siriane ma anche italiane, tedesche, francesi, inglesi e giapponesi. Restare in Siria per difendere il patrimonio è stata una sfida, che ho accettato perché supportato da molti amici e soprattutto da tanti fra i miei ex-studenti che sono divenuti ora colleghi. Dirigo duemilacinquecento funzionari e il nostro obiettivo è non solo di salvare un patrimonio ricchissimo ma anche di documentarlo. Ad esempio, abbiamo fatto duecentomila nuove foto dei reperti e stiamo procedendo alla digitalizzazione degli archivi. Parte del nostro impegno è stato rivolto, inoltre, alla sensibilizzazione della popolazione locale, al fine di spronarla a proteggere l’eredità comune da vandali e ladri, superando le differenze e la contrapposizione lealisti / oppositori. La domanda che ci si deve porre, infatti, è come contribuire a salvare il nostro patrimonio perché la politica cambia ma i danni restano per le generazioni future».

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Dopo la distruzione dei templi di Baalshamin e Bêl, Palmira è stata nuovamente colpita. Sei tombe funerarie del tipo a torre sono state abbattute. Sembrerebbe che le milizie dello Stato Islamico non temano solo i «falsi» idoli ma anche i morti che vengono dal passato. In assenza di interventi, cosa dobbiamo aspettarci?
Sono pessimista. Di questo passo, faranno esplodere tutto il sito. I miliziani hanno trasformato il museo archeologico in prigione e tribunale. Hanno concesso permessi per scavi clandestini, che sono iniziati un mese fa. La città è in ostaggio e se resta nelle loro mani la perderemo. Abbiamo trasferito le statue prima che, nel maggio scorso, lo Stato Islamico ne prendesse possesso e tre colleghi sono stati feriti durante le operazioni. Siamo contenti di aver almeno salvato preziose testimonianze dell’arte palmirena perché avrebbero distrutto o venduto tutto. Resta il rimpianto per i monumenti: nell’impossibilità di recarci sul sito, non sappiamo ancora se – dopo le esplosioni – sopravvivano elementi architettonici che ci consentano, un giorno, di ricostruire i templi. Aver accettato che i jihadisti agissero indisturbati è una sconfitta per la civiltà moderna.

Il 18 agosto, Khaled As’ad, ex-direttore del sito e del museo di Palmira, è stato barbaramente ucciso. Questo tragico evento non è stato scevro da strumentalizzazioni e processi di «eroizzazione». Come vuole ricordare il suo collega?
Malgrado fosse in pensione, As’ad lavorava alla Direzione Generale come esperto; le sue immense conoscenze erano utili soprattutto per l’expertise sugli oggetti perché era in grado di stabilire quali – fra i reperti intercettati dalla polizia – fossero originali. Lo avevo avvisato del rischio che correva nel restare a Palmira ma non mi ha dato retta. Era nato accanto al tempio di Bêl e diceva che non gli restava più niente da perdere nella vita. Il suo assassinio è stato una vendetta ma anche un messaggio volto a terrorizzare la popolazione di Tadmor. Khaled non era solo un archeologo ma anche un uomo molto rispettato in città. Cinquanta funzionari della Direzione Generale delle Antichità sono ancora in servizio a Palmira, ma in incognito.

Finora come si è manifestato il sostegno della comunità scientifica internazionale nei suoi confronti?
Mi duole dire che, nel 2012, io e i miei colleghi siamo stati attaccati perché considerati come un’emanazione del Regime. È vero, la Direzione delle Antichità è un’istituzione pubblica, che dipende dallo Stato. Ma io non sono un politico, sono un funzionario e m’inquieta il fatto che alcuni paesi si rifiutino di collaborare o scoraggino i loro studiosi ad avere contatti con noi a causa delle differenti posizioni politiche. Essere contro il governo siriano non dovrebbe significare essere, a priori, anche contro il popolo siriano perché una simile attitudine ha delle conseguenze negative sulla salvaguardia del patrimonio. Tra la fine del 2013 e gli inizi del 2014 l’Unione Europea ha lanciato un programma di cooperazione da due milioni di euro. Tramite questo progetto, una cinquantina di funzionari siriani sono stati accolti presso la sede Unesco di Beirut. Alcuni paesi, come l’Italia – che ha dato un grande contributo alla storia delle ricerche in Siria – hanno mostrato fedeltà ma mancano azioni concrete sul terreno. La comunità internazionale tace e noi abbiamo urgentemente bisogno di sostegno perché non sappiamo per quanto tempo le collezioni potranno restare in salvo e fin quando resisteremo.

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Avete messo in sicurezza i reperti che erano custoditi nei musei, ma ce ne sono altre migliaia che sono entrati nel mercato illegale in conseguenza di scavi clandestini. I siti restano esposti a devastazioni e saccheggi. Qual è il bilancio attuale?
In Siria ci sono diecimila siti. Migliaia vengono protetti dalla popolazione locale ma trecento hanno subìto finora danneggiamenti di diverso livello. Una prima categoria di danni è quella che deriva dagli affrontamenti di guerra, come ad Aleppo; poi ci sono le ragioni ideologiche, che hanno portato nelle regioni controllate dallo Stato Islamico alla distruzione di importanti monumenti di Palmira ma anche di mausolei islamici e monasteri cristiani. Un centinaio di siti sono quotidianamente minacciati da scavi clandestini, e questo succede anche nei territori dove l’Isis non è arrivato. La mancanza di un’autorità centrale, inoltre, favorisce la speculazione edilizia a ridosso delle zone archeologiche. Ad Aleppo sono stati danneggiati duecentocinquanta edifici storici, senza contare i suq, dove mille boutiques sono andate a fuoco.

Che notizie può darci di Bosra e degli altri siti archeologici in pericolo?
Bosra è sotto il controllo dell’esercito, abbiamo preservato statue e mosaici e di recente è stato nominato un nuovo direttore. Il governo non c’è, ma la popolazione sì. È un esempio ben riuscito di cooperazione, che vogliamo espandere nel Nord della Siria. Al confine con la Turchia, ci sono inoltre dei siti protetti dai combattenti curdi. Nelle regioni sotto il controllo dell’Isis non c’è nulla da fare. A Mari e Dura Europos vengono usati mezzi meccanici pesanti che hanno già causato devastazioni irreversibili. Purtroppo queste notizie non fanno scalpore perché non tutti i siti sono conosciuti come Palmira né hanno lo stesso impatto emotivo sulla gente.

Da quando le distruzioni nei siti archeologici hanno avuto un grande risalto sulla stampa, molte voci si sono levate per contestare l’eccessiva attenzione rivolta alle rovine rispetto ai massacri dei civili. Cosa pensa al riguardo?
C’è una risposta in un certo senso italiana a questa domanda. Nel 2014, Francesco Rutelli – il quale presiede l’Associazione Priorità Cultura – lanciò, in collaborazione con il decano degli orientalisti italiani Paolo Matthiae, una campagna che s’intitolava «La vittima dimenticata», riferendosi con quest’espressione al patrimonio siriano che scompariva nel silenzio. È vero, i diritti umani sono prioritari. Io stesso temo per la mia vita e quella dei miei familiari. Ma noi archeologi non siamo dei politici. Il nostro compito è di proteggere e difendere il patrimonio, la nostra è una battaglia culturale. Se ci tiriamo indietro, qualcuno un giorno ci rimprovererà di esser venuti meno al nostro dovere. Gli interventi di forza e le negoziazioni di pace spettano ai governi