Luogo significativo per l’immaginario domestico, insieme varco e limite, zona di passaggio e collegamento fra tutte le stanze, il corridoio è lo spazio dal quale veniamo introdotti nel romanzo dell’autrice spagnola Sara Mesa, La famiglia (traduzione di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, pp. 224, € 17,50), che la voce narrante intenta a guidarci all’interno della casa chiama «centro geografico e frontiera». Accedere alle stanze è prerogativa di pochi, gli altri restano in corridoio, la zona franca dove attendere il permesso di muoversi negli ambienti chiusi in cui si consuma la misteriosa intimità altrui.

Se a quanto ha scritto la storica francese Michelle Perrot, «la camera è una scatola», inscatolati dentro un sistema panottico il cui centro sono le mura domestiche appaiono, per l’appunto, i protagonisti del romanzo: Padre e Madre – più funzioni che individui – tre figli e una nipote adottata.

Il «Progetto» – come i genitori chiamano il nucleo famigliare cui hanno dato vita – ha come «fine ultimo» il «progresso sociale» e come tramite la riproduzione. Allevare i figli in un agio dotato di sobrietà comporta uno stile di vita equilibrato, rispettoso, e sintetizzabile nel motto «collaborazione, partecipazione, generosità, calma». Per Padre «non è ammissibile che ognuno badi solo ai fatti propri», così come non è accettabile l’idea che un componente della famiglia chiuda il suo diario con un lucchetto, perché nessuno dovrebbe «covare dei segreti».

L’idea che i genitori hanno della comunità familiare è alla fin fine carceraria, così come lo «spirito collettivo» cui si appella Padre si consolida attraverso l’isolamento, e il suo modo di intendere la partecipazione all’esistenza dei propri cari condanna tutti a una cheta infelicità. Ma le sofferenze, come le perdite d’acqua, prima o poi affiorano e macchiano i muri del fortino: a proposito di Madre, «la gente diceva: le è venuta la malinconia». Nella lunga tradizione dei personaggi femminili del diniego è possibile trovarle un’antenata nella Catherine Earnshaw di Cime tempestose, allettata e sopraffatta dalle decisioni altrui.

I figli sono l’altro epicentro della narrazione: nelle pagine dedicate al quindicesimo compleanno del primogenito Damián, forse le più amare, appaiono sulla scena delle anatre, galleggianti sullo stagno del parco in cui il ragazzo si rifugia dopo il primo dei suoi tanti fallimenti. Il tempo di immaginarcelo lì solitario e viene in mente per associazione Holden Caulfield, anche lui rappresentato al parco a guardare le anatre: hanno pressappoco la stessa età e qualcuno cui rendere conto che li aspetta. Ma mentre il personaggio di Salinger cerca di ritardare il più possibile il momento in cui dovrà rincasare, Damián torna subito al nido, palesando un  desiderio di libertà che ha scarso raggio d’azione e la resa pressoché immediata alla vita che gli viene imposta.

L’intreccio è composto da un andirivieni di frammenti narrativi dai quali emerge il tragitto maldestro e irregolare dei ragazzi verso la conquista del proprio sé. Refrattaria a rivelarsi nella sua interezza, la quotidianità di questi personaggi oscilla fra la rappresentazione implicita di un ordigno sul punto di esplodere e quella di un ammasso di detriti provenienti da qualcosa che è già esploso.

Gandhi, esempio di convivenza tra nemici, è la figura cui,  grazie all’ironia di Mesa, Padre, che ne porta un’immaginetta sempre con sé, si ispira; mentre precetti e slogan funzionano da impalcatura a sostegno di un mondo fittizio, che trova in un’integrità di facciata il suo nucleo di presentabilità morale.