«Come è possibile sentirsi francesi quando intorno abbiamo solo persone come noi? Siamo rinchiusi tra di noi, cresciamo tra di noi, abbiamo la nostra cultura. Quando vado nella vera Parigi, qui di fianco, non sono a casa mia. Non direi che ci forzano a restare qui ma tutto è fatto in modo da farci restare tra di noi. Mi sento più vicino al mio paese d’origine, il Mali, dove vado ogni anno, che alla Francia. Quando si sentono storie come quella delle quote etniche nella nazionale di calcio, come pensi sia possibile sentirsi francesi? Preferisco la franchezza all’ipocrisia e credo che la Francia sia un paese di ipocriti perché anche se non ci accettano ce lo fanno credere. E bada bene, se siamo in tanti maliani in Francia è perché siamo stati colonizzati dai francesi: non ci possono rimproverare di essere venuti qui quando loro sono venuti da noi senza che glielo chiedessimo. Io sono nato in Francia ma da una famiglia africana che ha spiegato a me e ai miei fratelli i valori dell’Africa, la colonizzazione ecc. Sono nato conoscendo la mia storia, ho coscienza di quanto succede».

A parlare è Ousmane, ventiduenne all’epoca di queste dichiarazioni. A luglio del 2011 sono andato a Aubervilliers, banlieue alle porte di Parigi, per incontrare, nell’Office Municipal de la Jeunesse, i ragazzi degli «atelier di scrittura urbana» che, dai primi anni del Duemila, spopolano in quelle periferie francesi dove abitano per lo più persone di origine africana. Stavo scrivendo Rapropos. Il rap racconta la Francia, saggio che sarebbe uscito nel 2012 per Agenzia X. Il nome d’arte di Ousmane è Osmos, il suo gruppo si chiama Relève Agressive, e lui era l’animatore di questo atelier rap (per capirci). In questo stralcio dell’intervista esprime un sentimento comune a molti francesi di origine africana, per lo più giovani, gli stessi che magari vedono nel rap la possibilità di affermare la loro storia e, chissà, affermarsi a livello popolare, dunque cambiare vita e fuggire dalla banlieue – quanto meno fisicamente. Le sue parole di certo esprimono dolore: nascere, crescere e vivere in Francia ma sentirsi maliani (o comunque estranei) ha più il sapore di una costrizione che di una scelta libera. I Relève Aggressive, in questi ultimi anni, non sono cresciuti a livello di popolarità come sperava Ousmane all’epoca ma in ogni caso lui assicurava che avrebbe continuato a vivere il rap prima di tutto come una passione e, a giudicare dai video che condivide (di Booba, Rohff e altri), così è.

In questi dieci mesi, alla luce dei tragici attentati che hanno colpito la Francia, la stampa non francese (perché quella francese, ormai, ha buona dimestichezza con la materia) ha cercato di associare le derive violente dell’integralismo islamico al rap, ignorando, per esempio, che gli atelier rap nelle banlieue sono molto diffusi, che i centri giovanili in cui si svolgono, in pratica, sono gli unici luoghi di svago di certe cité dormitorio, che il rap in Francia è il genere musicale più popolare e che la maggioranza dei rapper transalpini arriva proprio dai quartieri più disagiati. Insomma, fare rap in Francia, o quanto meno provarci, è un po’ come giocare a calcio in Brasile. Un’altra via di fuga dalla realtà di certo è la religione: in questi quartieri, l’assenza di qualsiasi punto di riferimento istituzionale è sopperita anche dal credo (per lo più musulmano), e questo è un altro dato di fatto. Ma le storie personali dei vari rapper dicono che il ruolo della fede nelle rime a tempo è semplicemente una risorsa culturale in più, che ognuno vive (e canta) a suo modo. Un altro fatto è che dalla scrivania non solo è possibile ma anche facile, specie quando si ha poco tempo, costruire teorie, per esempio, sopra il rapper in apparenza più attaccabile da questo punto di vista: Médine è nato a Le Havre, è di origine algerina e, come suggerisce il nome, è di fede musulmana, come lo sono tantissimi rapper statunitensi noti al grande pubblico (tra cui Afrika Bambaataa, Busta Rhymes, Common, Ice Cube, KRS-One, Mos Def, Nas, Q-Tip e tanti altri). Médine è anche un intellettuale del rap, un artista pretenzioso nei confronti del pubblico: il suo impegno contro l’islamofobia lo ha portato anche a provocare come quando, nel 2005, ha intitolato un suo album Jihad (Din Records) per poi specificare nel sottotitolo «la più grande battaglia è contro se stessi». Da anni ormai uno dei suoi intenti è quello di arginare l’immagine quasi solo negativa dei musulmani promossa dai mass media dall’11 Settembre in poi, anche per questo ha coniato il motto «I’m muslim, don’t panic». Dopo questi ultimi attentati di Parigi ha richiamato all’unità nazionale e ha scritto sulla sua pagina ufficiale una frase che risulta difficile interpretare negativamente: «La forza della cultura di fronte alla cultura della forza!».

Abd Al Malik, rapper e slammer autore del libro autobiografico Qu’Allah bénisse la France (Che Allah benedica la Francia), l’anno scorso diventato anche un film di discreto successo, invece per ora non ha espresso pensieri pubblici dopo i tragici fatti. Nella scena rap Malik è un personaggio controverso sia perché negli anni il suo stile si è evoluto dal rap allo slam (da molti considerato una versione edulcorata e vendibile alla massa delle rime a tempo) sia per alcune sue dichiarazioni di riconoscenza e amore incondizionato nei confronti della Francia da alcuni interpretate come ambigue. Anche lui, in ogni caso, può essere considerato un intellettuale del rap, un artista dal background hip hop capace di spiazzare: già il titolo della sua autobiografia potrebbe essere un tema di dibattito. Se poi si va alla sostanza del racconto, alla sua storia di cattolico adolescente che si converte prima a un islamismo militante e poi, quando scopre il rap, si riconosce nel sufismo, la via all’Islam che gli permette di continuare a rappare senza conflitti interiori, gli spunti di riflessione sono ancora di più. Premesso che l’Islam è la religione più diffusa tra i rappresentanti artistici dei due mercati hip hop più sviluppati al mondo (Francia e Usa), queste e altre storie simili dicono che, nonostante il linguaggio rap sia ancora giudicato dai più moralisti un mezzo per diffondere la violenza, di fatto sia prima di tutto un’alternativa alla violenza, un luogo dove c’è spazio sì per la parola ma anche per il pensiero.

Come ha vissuto un semplice ragazzo di banlieue come Ousmane i recenti fatti accaduti in quella Parigi per lui così lontana e così vicina? Su Facebook, con il suo francese «slangato», ha condannato gli attentati. Nella sua foto profilo in ogni caso non campeggia il tricolore francese: si vede lui che indossa la maglia della nazionale di calcio maliana, ed è così da mesi. Il Mali non se la passa certo bene a livello di attentati ma le ragioni di questa foto sembrano arrivare più che altro dalle sue parole citate in apertura. A ventisei anni, ormai, certi sentimenti si presume che si siano rafforzati e, come tanti altri ragazzi francesi (lo dice prima di tutto la carta di identità che sono francesi), Ousmane ha trovato rifugio nelle sue origini. Storie personali simili sono tante in Francia, e i legami con il rap possono essere trovati in tantissimi casi. Da qui a collegare il rap al terrorismo, portando o meno come esempio i video amatoriali che mostrano i responsabili di fatti di sangue con il microfono in mano, il passo è quanto mai lungo e goffo. Gli integralisti, siano cattolici o musulmani, per lo più disdegnano la musica moderna fino a condannarne la maniera di viverla, i contenuti o, addirittura, a osteggiarne gli autori. Il rap, ancora oggi, dopo quasi quattro decenni di vita, è il genere musicale con il linguaggio più moderno in circolazione, e lo testimonia anche l’incomprensione trasversale di cui è oggetto, specialmente in paesi come l’Italia che fino a poco fa, a parte una minoranza di appassionati, non hanno potuto che viverlo di riflesso. Visto il successo che questo genere sta riscuotendo anche qui, sembra però arrivato il momento di non potersi più permettere di scrivere che il rap è diseducativo (perché mai i rapper, o più in generale i musicisti e gli artisti, dovrebbero poi educare?) o addirittura che terrorismo e rap viaggiano a braccetto, accantonando l’analisi delle radici sociali dell’uno e dell’altro e ignorando la specificità di alcune storie in cui il rap ha un ruolo del tutto marginale.