Il rapporto di Pasolini con il Pci fu complesso, altalenante. Ma continuo. Sentimentalmente profondo. Con alcuni dirigenti, tra i quali Antonello Trombadori, di vera amicizia. Pasolini era un marxista, aperto a molteplici rapporti e influenze. In ordine sparso: da Godard a Pound, da Brecht a Chaplin, da Deleuze a Guttuso, da Gramsci a Freud, e poi i suoi costanti riferimenti Dante e Marx. Su questo si è scritto tanto. Voglio raccontare, invece, dell’amicizia che legò il grande poeta, negli ultimi due anni della sua vita, alla Fgci. I giovani comunisti. O meglio, i giovani comunisti romani: un gruppo assortito e curioso. Capeggiato dall’indimenticabile Gianni Borgna, spedito da Luigi Petroselli nel 1973 a risollevare le sorti della federazione giovanile della capitale. (…)

Nel 1974 decise di organizzare, con il suo nuovo gruppo dirigente, la nostra prima Festa della gioventù. Scegliemmo per svolgerla la “valletta dei cani” di Villa Borghese. Doveva essere un evento molto di “sinistra”. Grande ruolo ebbero i cantautori del canzoniere italiano. Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea. Tuttavia, pensammo anche di scrivere e rappresentare uno spettacolo da noi inventato: Aspettando la meraviglia. Di cui parlò un gran bene il quotidiano «il manifesto», allora critico con i comunisti italiani. Il momento più intenso della rappresentazione era quando un gruppo di ragazze e ragazzi irrompevano sul palcoscenico, all’improvviso, uscendo da un’installazione (totalmente avvolta in grandi teli bianchi ben tirati), dopo averla lacerata da dentro con dei grandi coltelli affilati. Per noi, voleva significare l’irrompere del ’68. Che tutto cambiò. L’effetto fu forte. Forse troppo. Perché risultò poco rassicurante per i funzionari della federazione che erano venuti a curiosare. La messa in scena li lasciò perplessi. E da quel momento, pur rimanendo liberi, nella federazione del Pci fummo considerati degli “osservati speciali”.

Gianni da tempo insisteva nell’avere, a tutti i costi, Pasolini protagonista della festa: per spiegare le sue ragioni e la sua analisi cruda, e persino disperata, sullo sviluppo italiano e i caratteri antropologici della società di quel momento. (…) Mi misi alla ricerca del poeta. Non avevo il suo numero di telefono. Tramite Bruno Grieco, allora responsabile della sezione spettacolo di Botteghe Oscure, stimato e gentile, riuscii a ottenerlo rapidamente. E così la mia amicizia con Pasolini iniziò da una telefonata.(…) Lo andai a trovare il prima possibile. Non ci furono particolari convenevoli e tanto meno slanci di entusiasmo. Ma alla fine Pasolini disse di sì. (…)

Sentimmo una responsabilità grande nel preparare l’incontro pubblico. Anche Borgna, felicissimo, si accorse della delicatezza politica e organizzativa dell’iniziativa che tanto avevamo sognato. Accanto a Pasolini dovevamo invitare un rappresentante della cultura del partito. Che fosse al tempo stesso capace di reggere il livello del discorso, di rappresentare le idee ufficiali del gruppo dirigente comunista, di svolgere un dialogo civile.

La scelta cadde sul professor Gabriele Giannantoni. Insigne accademico e impegnato anche direttamente nel lavoro del partito di Roma. Notai subito tra i nostri militanti una divaricazione, sotterranea ma evidente. Alcuni erano conquistati dal fascino del grande poeta. Altri parteggiavano per Giannantoni, vale a dire per le tesi del Pci. La questione più spinosa riguardava il giudizio netto che Pasolini aveva espresso sulla nostra generazione. Guerra civile tra borghesi. Perdita della ingenuità, naturalezza e grazia dei ragazzi degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Lo sfascio delle forme interiori e persino corporee, dei figli del consumismo e del benessere. Incattiviti. Potenzialmente violenti. Per certi aspetti indifferenziati, tra quelli di destra e quelli di sinistra. (…)

Lo andai, poi, a trovare altre volte. Parlando soprattutto di cinema, l’argomento su cui mi sentivo più forte e preparato. È la forma d’arte che ho sempre amato di più. Rossellini sopra ogni altro. Talvolta toccammo, in modo circospetto e delicato da parte mia, il tema del rapporto tra il Pci e l’omosessualità. Un misto di moralismo, reticenza e disciplina. Forse anche l’idea di non prestare il fianco alle polemiche bigotte dei nostri avversari. Consideravo tutto ciò inconcepibile. Ho vivo in mente il ricordo di una sera a cena alla Carbonara, a Campo de’ Fiori, quando Paolo Bufalini, al quale ero affettuosamente legato, mi raccontò le vicende di un brillante giovane dirigente sardo, Renzo Laconi, che aveva sofferto per dei sospetti nei suoi confronti. Laconi era in ascesa perché particolarmente intelligente e preparato. Tra i 75 “redattori” della Costituzione italiana. Apprezzato da Togliatti. Oratore acuto e travolgente. Insieme a Ingrao, forse il migliore del gruppo dirigente del dopoguerra. Eppure, pesò nella sua carriera il dubbio circa la sua omosessualità. Peraltro, solo supposta in quanto non aveva famiglia e viveva ancora con la madre.
Il dialogo con Pasolini, dunque, andò avanti. Si approfondì persino. (…) Quello che continuava a colpirmi era il suo pessimismo e il suo tragico “lutto” rispetto a un passato preindustriale e contadino, in totale controtendenza, in quel momento, con l’espansione elettorale e di egemonia del Partito comunista italiano. (…) Una sera, lasciando casa di Pietro Ingrao, il dirigente della sinistra italiana che ho amato di più, gli chiesi un giudizio su Pasolini. Mi rispose: “Un grande intellettuale, un artista importante”. Poi, dopo una pausa, aggiunse: “Però è troppo pessimista. Sì, troppo pessimista”. (…)

Di molte cose venimmo a capo quando Pasolini, in privato e poi in pubblico, cominciò a definire il vero contorno del rapporto che ci legava. Non so che avesse trovato davvero di particolare in noi. Forse lo aveva colpito il nostro entusiasmo ingenuo e pulito. La semplicità dei nostri comportamenti e del modo di vestire, del tutto estranei alla moda; oppure la nettezza dei nostri convincimenti di fondo e la radicalità della nostra lotta alla Democrazia cristiana, che era diversa da quella del partito dei “grandi”. Fatto sta che, riferendosi alla poltiglia generale di una umanità trasformata dalla mercificazione e dal consumismo, cominciò a pensare ci fosse un’isola nel mare del nonsenso. Quest’isola erano i comunisti. Più precisamente, i giovani comunisti.

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Il libro presentato il 13 maggio all’Auditorium di Roma con Conte, Armeni, Gualtieri e Rutelli.