«Per via di una lente di vetro e di uno specchio si fabbrica un ordigno, il quale porta la immagine o il quadro di che che sia e di un’assai competente grandezza sopra un bel foglio di carta, dove altri può vederlo a tutto suo agio e contemplarlo; e cotesto occhio artifiziale camera ottica si appella. Non dando esso l’entrata a niuno altro lume fuorché a quello della cosa che si vuol ritrarre, la immagine ne riesce di una chiarezza e di una forza da non dirsi». Così Francesco Algarotti, nel paragrafo «Dell’uso della camera ottica» del suo Saggio sopra la pittura steso nel 1762. Ettore Bonora ha scritto d’una costante correlazione che i ragionamenti sulla pittura di Algarotti intrattengono con le norme retoriche istituite dalla trattatistica rinascimentale riguardo alla poesia, fornendo, così, più di un riscontro a stabilire un nesso tra pittura e poesia, tra parola e immagine. Un nesso, tuttavia, io credo, che in Algarotti cerca il suo fondamento nella distinzione, nel rilievo puntuale delle reciproche specificità peculiari.

Richiamo un brano critico dedicato alla pittura di Paolo Veronese contenuto in una lettera inviata da Algarotti, il 10 giugno del 1761, all’incisore parigino Mariette: «quello che ha Paolo sopra gli altri pittori è che ognuno vorrebbe entrare, per così dire, dentro a’ suoi quadri, potervi camminar dentro, vedervi quelle parti che rimangono nascoste all’occhio». E continua: «quegli ariosi suoi siti, que’ grandiosi e ricchi suoi campi, con le meglio intese fabbriche che uno possa immaginare, invitano veramente, e con dolce magia chiamano a sé i riguardanti».

Gli «ariosi siti» della pittura, quel dare spazio e aprire a percorsi ulteriori, quel fingere transiti prospettici che inducono la mente a collocazioni mobili, a calcolati accessi, a imprevedute stazioni. «La chiarezza e la forza» che la camera ottica conferisce alle immagini in essa prodotte e inquadrate, sono tali da esibire un ‘assoluto’ valore pittorico. Un ‘assoluto’ proprio della pittura conseguito, nella fattispecie, per l’effetto che reca la variazione delle distanze, la loro modulazione.

Dopo aver ribadito che «nella camera ottica la potenza visiva è tutta intesa al solo oggetto che le è innanzi; e tace ogni altro lume che sia», Algarotti sottolinea come «meraviglioso dipoi in tal quadro è lo innanzi e lo indietro». Vale la pena leggere le finissime considerazioni che a questo proposito – distanza e immagine, distanza creatrice di immagine – egli svolge quando scrive: «oltre al diminuirsi che fa negli oggetti la grandezza, secondo che dall’occhio si allontanano, vedesi ancora diminuita la sensibilità del colore, del lume, delle parti di quelli. A maggior distanza risponde più perdimento di colore ed isfumatezza di contorno; ed assai più slavate sono le ombre in un lume minore più lontano». Il congegno della camera ottica mostra un elemento costitutivo della pittura ossia la prospettiva, pur connessa alla lineare, che Algarotti chiama «aerea, quasi che l’aria, posta tra l’occhio e le cose, come le adombra un tal poco, così ancora le logori e le si mangi».

La prospettiva aerea coinvolge e condiziona le linee di fuga, ma riguarda, prima di tutto, il contorno. Quel contorno che è, per Johann Joachim Winckelmann, la resultanza del convergere delle dinamiche plastiche interne all’opera, tale da metter capo a una «quieta grandezza», e che, per Algarotti, vibra sfrangiandosi impercettibilmente in «isfumaezza». È la pittura di Johannes Vermeer che si attiene a una registrazione perfetta della resa delle immagini ottenuta a mezzo della camera ottica. Un dipingere, il suo, eseguito nel rispetto delle cogenze tecniche e ‘materiali’ che quell’«ordigno» impone. Quasi, se non al tutto, un copista Vermeer. Si dedica alla riproduzione dell’immagine naturale riflessa «per via di una lente di vetro e di uno specchio», applicandosi ad un suo minuzioso, meticoloso ricalco inteso a dare permanenza a quel meraviglioso, effimero giuoco delle rifrazioni luminose perseguito fino a riprodurne fedelmente, con precisione lenticolare, la delicata imprecisione dei contorni che incantò Marcel Proust.