Dopo tredici anni di assenza torna sul grande schermo la leggenda del cinema indipendente Peter Bogdanovich (Hollywood Confidential risale al 2001), fuori concorso, con l’esilarante commedia She’s funny that way.

Ci voleva Wes Anderson come capitano di questa nave immaginaria che si muove in territori vicini e lontani, nel senso reale e metaforico per realizzarlo. «Siamo amici da sempre», ammette con gratitudine l’autore di film memorabili come L’ultimo spettacolo (1971) e Ma papà ti manda sola? (1972 con Ryan O’Neal e Barbra Streisand). L’idea però nasce ben prima, ai tempi di Saint Jack in concorso a Venezia nel 1979, con Ben Gazzara nel ruolo di Jack Flowers, un reduce della guerra in Corea che si era fermato in Singapore per gestire un bordello alla faccia della mafiosa Triade cinese.

«Usavamo escort girl vere per girare molte scene – spiega il regista classe 1939 – e pagammo loro somme extra di denaro per toglierle da quel giro infame, da qui l’idea chiave per She’s funny… dove il protagonista Arnold (Owen Wilson) distribuisce fior fior di dollari alle call girl. Si aggiunge la mia passione per Cluny Brown (Fra le mie braccia, 1946) di Ernst Lubitsch, dove la battuta sulle ‘teste rape per scoiattoli’ funge da fulcro narrativo a questo film che più che un rimando alla commedia svitata vedo più come una commedia romantica», sottolinea ancora con tocco da studioso Peter Bogdanovich, che accanto all’attività di regista ha svolto anche quella di storico e critico oltre a quella di sceneggiatore, attore e produttore.

E in questa sua nuova opera si vede anche una New York romantica, ed è la seconda che gli capita di girare nella città della grande mela, nella capitale della cultura underground dopo …e tutti risero nel 1981: «Ci sono nato, molti dicono che è molto cambiata come città, invece no, è un luogo di grande ispirazione per me», risponde a chi gli chiede, se la New York un po’ old fashion e quello stile di vita esiste ancora oggi.

Alla domanda rivolta all’interprete di Isabella Patterson alias Izzy Glo Stick, Imogen Poots, se quel genere di teatro non sia un po’ retrò, lei afferma che: «è contemporaneo, riflette un po’ le atmosfere da home movie, testimoni di una New York bellissima, romantica, che adoro, ma c’è sempre un taxi che ti aspetta per ricondurti nella tua vita frenetica personale». Bogdanovich ribatte che: «anche quello è sapore autentico newyorkese, ho iniziato come attore e regista a teatro».

Per meglio comprendere la domanda rivoltagli in italiano, pulisce le cuffie del servizio di traduzione simultanea come un paio di occhiali con un fazzoletto di carta, e dopo aver ascoltato in silenzio concentrato il giornalista che vuole sapere come mai nessuna major produce più una di quelle tipiche sophisticated comedies, a parte Woody Allen, gli scappa un graffiante: «non voglio mordere la mano che non mi dà cibo» per poi aggiungere che la grande fucina dei sogni aveva sbagliato direzione buttandosi a capofitto su cartoni animati, serial e grandi colossal.

«Personalmente amo i piccoli film, il cinema indipendente che si fa grazie a persone come Holly Wiersma e Logan Levy che hanno reso possibile questo film (seduti accanto a lui, i due figurano tra i produttori assieme a Louise Stratton, ex moglie e anche co-sceneggiatrice con lo stesso Bogdanovich, e Georges Drakoulias, ndr). Dall’amico Roger Corman, che mi aveva fatto esordire al pari di un Jack Nicholson o Martin Scorsese, ho imparato come fare il cinema rubando scene e location. Scherzi a parte, come al solito abbiamo girato molto velocemente; questo l’abbiamo fatto in ventinove giorni, anche grazie a un cast e produttori che lo hanno reso possibile. Amo sentir ridere la gente. Un tempo lo faceva Lubitsch. Ricordo Cary Grant quando un giorno mi disse: ’vai al Music Hall, sali in galleria e ascolta seimilacinquecento persone che ridono, fa bene al cuore!’ Sì, mi ha fatto bene al cuore, è un regalo, anzi, il più bel regalo che un regista può fare al suo pubblico!»