Due bambine e mondi diversamente udibili visibili, altri: delicati e fortissimi, colmi di impalpabile grazia e di bellezza. Come è rinfrancante deviare da quelli bruttissimi che, specie di recente, vogliono calarci sugli occhi! Due bambine: una per ogni film di cui dirò, davvero due perle nelle profondità del Festival dei Popoli, approdato quest’anno, sempre con la guida di Alberto Lastrucci, alla 56ma edizione (dal 27 novembre al 4 dicembre, momento tra i più attesi della 50 giorni di cinema a Firenze).

Due bambine, sì, perché in queste storie tutto ruota intorno a loro, sebbene niente, ma proprio niente, quale che sia l’arco spazio-temporale che si trovano ad abitare, ruoti intorno a loro. Eppure. Accade in Mustang, esaltante opera prima franco-turca candidata all’Oscar: divenute ragazze, le abbiamo viste, trasformare la prigione di vetuste patriarcali costrizioni, che le asfissiava ogni giorno di più, dapprima in un fortino e poi in un magnifico trampolino di fuga – anche a costo di imparare a guidare l’auto precocemente … -. Qui, e siamo in Polonia oggi, la vita di Denisa, 10 anni, potrebbe essere soltanto un coacervo inestricabile di emarginazioni: rom, in un campo di baracche che la città contigua minaccia continuamente di far sgombrare (è in corso un processo), femmina in una comunità ammorbata da secolare maschilista sopraffazione, bambina – e quanti fattori di attaccabilità questo comporti lo sappiamo – e ancora, in seguito a una anomalia auditiva non curata (terribile ma è così), non udente. Per questo Denisa non ha mai parlato.

Ecco, dal fondo nero dell’incipit del documentario, affiora come candela tremolante la sua voce di «ragazza selvaggia» che tanto vorrebbe dire ma non sa, che non ha parole, se non suoni incompiuti che lei stessa non sente. Ecco, tanti potrebbero essere i frammenti di letteratura e cinema nello sguardo di questa bambina dalla lunga treccia con fiori, e invece no, perché Denisa è lei e solo lei. Denisa è Denisa quando finalmente è con i genitori nell’ambulatorio per le prove audiometriche (premi il bottone, se senti qualcosa), mentre sorride imbarazzata e la sua mano resta immobile (a chi è udente arriva un suono come di nave che entra nel cervello, ma lei cosa sente?). Denisa è Denisa perché dentro le batte il ritmo di mille tintinnanti braccialetti, vibrazione di cui nessuno può privarla, lo scampanio di cavigliere e piedi che non sanno star fermi, la testa a pesce nel cassonetto dei giocattoli usati e le meraviglie di bambole nemmeno tanto vecchie da tirar fuori, o forse un dvd e il mondo brillante di Bollywood, i suoi veli luminescenti e coreografie di ragazze inarrestabili. Denisa è se stessa perché in quest’opera dirompente di Agnieszka Zwiefka, è The queen of silence, «Sui generis» come la sezione che la ospita (spazio a chi sa osare, in questo caso varchi di musical per un progetto sviluppato con ESoDoc e Zelig School), perché con lei la piccola distesa di «campine» è più rivolta al cielo che ai rifiuti dove zampettano le galline, un micro-teatro di case teneramente arredate da formichine naïf, e minuscole bambine che «giocano» a cucinare, a pulire.

E se i suoi non sanno insegnarle a parlare e per di più dicono che non può chiedere l’elemosina perché si arrabbia … se i maschi la insultano, allora lei non sente non sente non sente, regina di ombre invincibili, di danze tra sciarpe verde-mare, rosso giallo e bluette, di disegni sull’acqua come sulle mani delle amiche, a cullare i primi suoni uditi solo da una bambola parlante, a giocare a fare il cinema horror o le incursioni della polizia, con la sua banda con l’intera città che balla e che non teme più né lei né la sua gente, che si piega ai suoi voleri di regina …

Se un giorno però dovessero portarla via, se il suo sacro apparecchio acustico dovesse restare abbandonato a terra, preghiamo che sia sempre guardata da amore, come lei ci ha guardato, come è stato con questa regista, in questo film. Il 3 dicembre, invece, con El Premio (2011), potremo essere accanto a Cecilia sulla battigia di una spiaggia persa nello spazio-tempo dell’Argentina della dittatura. Anche in questo caso, per volere di Paula Markovitch, autrice del film, originaria dei luoghi – la chiosa è per i suoi genitori uccisi – (ma ci sono anche echi di Polonia, con la fotografia di Wojciech Staroń cui è dedicata la sezione), saremo vicinissimei ai bisbigli poetici dei 7 anni di Ceci, stretta nella morsa tra la sofferenza della madre, perseguitata politica in fuga dal regime, e la pedagogia cieca e allineata della maestra. In questa spirale, lontana anni luce La vita è bella, Cecilia avvertirà che non basta ripetere la cantilena sui suoi, impartitale per non svelarsi, e lotterà con tutta la sua deliziosa persona per opporsi a un mondo senza il gioco: così tra i libri proibiti vorrà sotterrare anche il suo, «por jugar», ma la madre le risponderà rabbiosa, a suo modo giustamente.

Eppure, avviluppata tra i silenzi materni, i sadismi della docente che ha ben appreso il clima del paese e favorisce le spiate, mentre il vento flagella le imposte foderate di plastica della sua non più casa (anche questo è un film acustico), pur nel dolore del rapporto tagliente con la madre, su cui Markovitch si sofferma a lungo, Ceci saprà trovare insospettati spazi di rivolta per gridare coraggiosamente ciò che non può essere detto, così da meritarsi infinitamente quel premio che vorrebbe tanto. Che non sarà quello messo in palio dall’esercito, no.

maria_grosso_dcl@yahoo.it