Qualcuno ha notato quegli angeli dalle lunghe orecchie, dai languidi occhi e dal pelo morbido, che anche nella peggior sorte si rendono così utili, sopportano tutto e non chiedono quasi nulla? Quando le guerre o altre calamità flagellano luoghi poveri – e succede spesso – gli asini accompagnano, alleviano, talvolta salvano masse di esseri umani in fuga da quella pena di morte collettiva che è la guerra.

Di recente hanno aiutato i curdi siriani in fuga dall’orrore del sedicente Stato islamico; pochi mesi fa era stato il turno delle famiglie gazawi che si lasciavano alle spalle i bombardamenti israeliani. Dal nord del Mali, nel 2013, a dorso d’asino hanno trasportato i pochi averi di tante famiglie dirette verso il Sud o i paesi confinanti per scappare dalla minaccia delle bande armate islamiste/trafficanti e da quella delle bombe francesi.
Nel 2001, gli afghani che a centinaia di migliaia prendevano i sentieri e le strade verso il Pakistan, avevano ammassato l’indispensabile sui loro asini; intanto le casupole di terra, terreni minati e scarne coltivazioni facevano da tirassegno agli aerei da guerra anglo-statunitensi (a proposito di animali vittime di guerra: anche due cani sminatori furono uccisi dalle bombe, a Kabul nel 2001).

 

L’esodo non è solo a causa della guerra. Emergenza siccità in Africa, 2011 e 2012: nelle foto di persone in marcia nella polvere, il nulla dietro di loro, non mancavano mai gli asinelli carichi, insieme ai veli di donne magre, un’immagine eterna. Negli stessi mesi la «coalizione del volonterosi» di turno bombardava la Libia – da lì, sono scappati a milioni ma senza asini; questione di reddito per i libici, e questione di mare da attraversare per gli africani. Li usano dunque i fuggiaschi, ma anche i soccorritori. Asini e muli riescono portare acqua e cibo in zone impervie e povere. Sono stati dei salvavita durante i terremoti in montagna. Nell’attacco a Gaza del 2008, angeli a quattro zampe fecero da ambulanza per i feriti, quando quelle a motore non potevano arrivare.

Sono gli ultimi animali a morire, i più resistenti, quelli che portano acqua e legna fino allo stremo. Ma nemmeno loro ce la fanno, a volte. La tremenda siccità del Sertão in Brasile ha lasciato migliaia di asini e muli morti per strada.

A loro si pensa poco. Solo alcune organizzazioni, come il Donkey Sanctuary e il Brooke Hospital pagano veterinari locali nei paesi impoveriti, per l’assistenza agli equini da lavoro – asini, ma anche muli e cavalli da tiro –, piccoli sisifo che condividono le fatiche quotidiane dei compagni umani.

Scrive Jacques Prévert: «È un asino che dorme / Bambini, guardatelo dormire / Non svegliatelo / Non fategli qualche scherzo / Quando non dorme è spesso infelice / Non mangia tutti i giorni / Ci si dimentica di dargli da bere / E spesso lo picchiano / Guardatelo / È più bello di tutte le statue che vi dicono di ammirare e che vi annoiano».
Sfruttati. Mal ricompensati. A loro Leonardo da Vinci, vegetariano e antispecista ante litteram dedicò un indovinello: «Le molte fatiche saran remunerate di fame, di sete, di disagio e di mazzate e di punture». Due bellissimi libri a loro dedicati sono Platero y yo di Juan Ramón Jiménez e Joanna and Ulisses di May Sarton. Nel 1966 Robert Bresson diresse Au hasard Balthazar. E non vanno dimenticate le italiane Edizioni dell’asino.

Come proletari, gli equini da tiro furono mandati a morire nelle guerre, insieme ai soldati di leva. Fanti al macello, a due e quattro zampe. Quelli a quattro erano in gran parte forti muli. Incolpevoli trasportavano a dorso armi, munizioni, cannoni. Accadeva che salvassero i soldati feriti, portandoli via dalla battaglia e dalle trincee. È diventato famoso l’asino Hermann che lavorava per i tedeschi. A un certo punto, si è ammutinato. Ha saggiamente disertato.
Adesso in guerra gli asini non servono più. Ma in Afghanistan nei posti più impervi, i militari stranieri ne hanno ingaggiati, per il trasporto di acqua e viveri in basi di montagna. Quanti muli morirono insieme ai soldati di leva nell’orrore delle guerre mondiali? Da leggere il racconto La strada del giornalista e scrittore sovietico Vasilij Semenovic Grossman. La carneficina bellica è vista dallo «spazioso cervello» (e sentita sulla pelle scorticata) del mulo Giù, che presta servizio nel convoglio del reggimento di artiglieria: «Il 22 giugno del 1941 percepì di colpo molti cambiamenti, ma naturalmente non sapeva che il führer aveva convinto il duce a entrare in guerra contro l’Unione Sovietica. Gli uomini si sarebbero meravigliati se fossero venuti a conoscenza di quante cose poteva notare un mulo nel giorno dello scoppio della guerra a est (…)». Dopo molte fatiche e patimenti in contesti diversissimi, Giù finisce in Russia, nella morsa del generale inverno: «Il superlavoro senza tregua, il freddo, la logora imbracatura entrata nella pelle del petto fino alla carne, le piaghe insanguinate sul garrese, il dolore alle zampe, gli zoccoli consumati, sbriciolati, le orecchie congelate, i reumatismi agli occhi, le coliche alla pancia per via del cibo gelato e dell’acqua ghiacciata». Finché non trova un amico, un cavallo compagno di fatica. E insieme – lo possono notare i loro conducenti umani – i due piangono.