Due assicelle di legno ordinario, piallate, segate alla meglio e accostate a fare un piano d’appoggio. Una rustica mensola assicurata a una tavola da sei chiodi, ben ribattute le teste. È infissa a una parete scussa, tirata su a scabri mattoni, non tutti regolari. Alcuni sporgono, altri sono sbreccati. Negli interstizi, dove la malta va ormai sfarinandosi, si raccolgono segmenti d’ombra. La luce entra dalla sinistra e quasi sembra scivolare, lustra, nella superficie chiara del legno.

Qui sopra vedi una tonda cipolla, la tunica dorata nel suo velo, arricciato appena e franto dal quale sono spuntate, tenere e verdi, le prime carnose foglie. Un tozzo di pane le è appoggiato accanto. Spezzato, la crosta uniforme, ben cotta. Racchiude una mollica che si mostra scura, indizio di un impasto di farine grossolane, macinazioni di crusche e semole. Sovrasta la cipolla e il pane una brocca. Si staglia contro il muro dei consunti mattoni.

Vedi come, sul tondeggiante fianco bombato, nel giro sinuoso dell’orlo con il suo beccuccio, nella curva del manico si fermi la luce. Il lustro della ceramica invetriata la imprigiona e la fa brillare di un riverbero smagliante. La bianca brocca ostenta un decoro festoso, a larghe pennellate di verde e di aranciato: un gran fiore con i petali che si aprono a circondare un bottone di stami, come nel girasole. L’acqua versata dalla brocca, eccola nell’usuale bicchiere cilindrico di vetro a piombo, peso. Scaglie di luce vi giocano, si screziano sull’ombra della brocca che si distende, leggera come un lieve fumo, sulla mensola e oscura in parte l’acqua limpida e pura.

Quella chiarezza luminosa, tuttavia, lascia che un riflesso se ne posi sulla lama acuminata d’un breve coltello a serramanico, un temperino di quelli andanti, buono per ogni uso, da tenersi ripiegato in tasca, con il manico levigato che finisce in un ricciolo.

Una cipolla, un tozzo di pane, un bicchiere d’acqua di fonte, una brocca e un temperino contemplati nella loro assolutezza. Carlo Magini li ha disposti in ordine davanti al suo cavalletto, di fronte alla tela (46×36 cm, Roma Collezione privata) che si appresta a dipingere.

Con un tocco impercettibile ottiene un risultato di rara nettezza. Raggiunge trasparenze nelle quali stenti a ritrovar la traccia della sua mano d’artista, interamente fuso com’è, il tocco, nella perfetta restituzione, per via di velature delicate e di campiture leggere, dell’oggetto che Magini si è posto davanti agli occhi. Una maestria che lascia ammirati. Era nato a Fano il 16 settembre del 1720 e nella città natale venne a mancare il 3 luglio del 1806.

Fu pittore di pale d’altare e ritrattista, tirato su fin da giovinetto dallo zio materno Sebastiano Ceccarini. Ebbe vita lunga e travagliata. Probo nel suo mestiere e per gran tempo quasi dimenticato. Fin quando Roberto Longhi, recensendo su Paragone un volume di Sterling dedicato alla natura morta, non tolse Magini dal relativo oblio. Longhi indicò nel pittore di Fano uno dei maestri italiani della natura morta, di quel genere, in specie, che si designava un tempo ‘pittura di tavole con cibo sopra’. Anno 1953.

Da allora l’opera di Magini è stata assiduamente rintracciata, raccolta e studiata. E se ne son messi in rilievo i significati riposti, l’enunciato morale che implicano. In questa preziosa tela, il pane avviato e l’acqua bevuta a mezzo e a mezzo rimasta nel bicchiere e il coltello ancora sfoderato denunciano una recente presenza.

Qualcuno, arguisci, vive in quella spoglia stanza e questo è il suo magro cibo. Non si tratta solo, dunque, d’una parata d’oggetti umili disposti in posa sulla mensola e d’un avviato, misero pasto di pane e cipolla solamente. In questi segni di pauperitas leggi una formulazione evangelica, cogli una meditazione sulla sobrietà come modello di vita che non si esaurisce, però, in un invito alla rinunzia e all’umiltà. Cresce, invece, come austera meditazione sulla condizione e sulla dignità dell’uomo.