«Oggi in Spagna, domani in Italia». Dopo l’inattesa (almeno in questi termini) affermazione delle forze di alternativa al di là dei Pirenei, verrebbe spontaneo da noi rilanciare questo vecchio adagio rosselliano. Si tratta però, a ben vedere, più di un wishful thinking che di una parola d’ordine con basi concrete. Basta, per accorgersene, rivolgere un rapido sguardo alle ragioni di fondo di quanto accaduto in Spagna. Dove le grandi capitali sono state conquistate dal poliedrico movimento politico espressione della rivolta del 15M. E dove il quadro egemonico sorto ormai più di un trentennio fa, con la transizione dal franchismo alla democrazia, è stato irrimediabilmente messo in crisi.

Nel dibattito italiano sono spesso sottolineati alcuni dei punti di forza che hanno caratterizzato fin dalla nascita il fenomeno Podemos, e che sono alla base dell’attuale successo di questo partito-movimento e delle liste locali che lo hanno affiancato: il carattere rinnovato della leadership e la centralità di quest’ultima; la padronanza dei nuovi mezzi di comunicazione di massa; le parole d’ordine “anti-casta”; il rifiuto di collocarsi lungo l’asse tradizionale destra/sinistra. Tutto questo è genericamente fatto risalire ad un emergente “populismo”, ed in questo giudizio è già presente una previsione sulla durata effimera del fenomeno.

Non si tratta però di questioni accessorie, nonostante le forze di alternativa in Italia, con un misto di superficialità e supponenza, si siano spesso rifiutate di prenderle di petto. Eppure, il nostro sistema politico, dall’unità in poi, ha subito evoluzioni in senso progressivo proprio quando le organizzazioni delle classi subalterne si sono fatte protagoniste, invece che subirle, di potenti innovazioni in tema di rappresentanza. Così come è nella tradizione della sinistra italiana la denuncia della corruttela dei gruppi dirigenti tradizionali, nel momento in cui questi si contendevano in base a logiche spartitorie le spoglie dello Stato, considerato alla stregua di una cassa di compensazione dei propri interessi particolari.

Ed anche qui da noi, nell’ambito della “seconda repubblica”, lo scontro tra destra e sinistra è stato riassorbito nel monopartitismo di fatto che ha caratterizzato la democrazia dell’alternanza, perdendo così gran parte della propria pregnanza evocativa.

Le caratteristiche di Podemos cui si accennava, pur da considerare nel loro autonomo valore strutturale e non come meri espedienti di marketing, non basterebbero tuttavia di per sé a spiegarne il successo. Due paiono gli elementi ancor più decisivi: il legame stretto – quasi un osmosi – tra il nuovo soggetto della rappresentanza politica e lo scontro sociale in atto nel paese; ed il valore costituente assegnato alla battaglia municipale.

Il caso di Barcellona, da questo punto di vista, è forse il più esemplificativo.

Ada Colau, la nuova alcaldesa, è espressione diretta della lotta contro gli sfratti, comandati dai grandi gruppi bancari ed eseguiti nella generale indifferenza delle vecchie classi dirigenti, nella fase più algida della crisi economica. E’ nella simbiosi tra conflitto sociale e lotta elettorale che si è creata una nuova classe dirigente: questa non ha preso la via dei partiti tradizionali per emergere, ma neppure ha atteso l’unzione dei grandi media a seguito di un happening o di un aperitivo organizzato da una mucillaginosa società civile.

Allo stesso tempo, il progetto di Comune portato avanti da questo nuovo blocco sociale ha saputo disarticolare il discorso dominante, che rischiava di avvilupparsi su di un’unione sacra attorno al nazionalismo in chiave neo-liberale di Convergència i Uniò, frantumare un quadro politico in crisi ma non destinato a crollare per fatalità, e strutturare un disegno di municipalità come contro-potere rispetto allo Stato-della-crisi.

Siamo lontani anni luce da quanto praticato per anni dalla nostra “sinistra radicale”, sempre oscillante tra il richiamo a millantati “condizionamenti da sinistra” – spesso risoltisi in accomodamenti para-clientelari -; e impennate d’orgoglio attorno a micro-temi di carattere localistico e corporativo – magari cavalcando battaglie degnissime, ma prive di respiro generale e nazionale.

Eppure la storia della sinistra del nostro paese sarebbe ricca di spunti, per chi fosse deciso ad invertire la rotta. Proprio il “comune democratico” ha costituito una storica palestra in funzione della gestazioni di classi dirigenti nuove, cioè espressioni di gruppi sociali tradizionalmente esclusi dalla rappresentanza politica diretta, e decise a fare dell’amministrazione locale una potenziale cellula dello Stato nuovo in costruzione.

Viviamo in un paradossale contesto in cui classi dominanti a parole federaliste hanno ridotto gli enti locali a casse di compensazione dell’austerità, imposta in maniera verticistica da istituzioni trans-nazionali democraticamente irresponsabili allo Stato centrale, e via via per li rami ai comuni. I cui amministratori, intenti a rispondere più alla filiera clientelare di riferimento che al corpo elettorale (non a caso in preda all’apatia), si sono ben prestati a questo gioco, solo talvolta gonfiando a bella posta il petto contro lo Stato.

In questo contesto, lo spazio a disposizione per una ripresa del municipalismo democratico pare sconfinato. Bisogna saperlo conquistare con i metodi e gli strumenti adeguati.