Dopo avere passeggiato a Bologna nel corteo di Libera sabato scorso che chiedeva, tra l’altro, l’introduzione del «reddito minimo» in Italia, in un’intervista rilasciata a «Famiglia Cristiana» cinque giorni dopo il ministro del Lavoro Poletti ha detto «No al reddito minimo» perché ha un costo di molti miliardi, insostenibile per l’attuale bilancio pubblico».

Poletti ha fatto riferimento alla proposta del Movimento 5 Stelle sui 780 euro al mese, attualmente in discussione in Commissione lavoro al Senato insieme a quella presentata da Sel che ha un importo inferiore e un funzionamento diverso, come previsto dalla proposta di legge popolare sostenuta dai movimenti e associazioni da cui è nata. Ma il «niet» di Poletti è estendibile anche a quest’ultima e, in generale, alla campagna per il reddito di «dignità» lanciata da Libera con il Bin e il Cilap, che cerca di mettere attorno a un tavolo Cinque Stelle Sel e Pd (che ha presentato un’altra proposta) sulla base di quattro principi: il reddito minimo dev’essere individuale, sufficiente, congruo rispetto alle competenze al reddito e al lavoro precedente e riservato a tutti i residenti.

La richiesta sarà avanzata dalla manifestazione di domani a Roma organizzata dalla Fiom che sostiene la campagna «reddito di dignità».

Il cerchio si chiude.

Come previsto ieri da il manifesto, Poletti sosterrà una misura contro la povertà assoluta, coerentemente con l’impostazione neoliberista e caritatevole dei governi dell’austerità: «Non nego l’esistenza di situazione estreme di povertà e disagio. Entro giugno predisporremo un piano operativo per l’inclusione sociale», cioè un sussidio contro le povertà sul modello fallimentare della «social card» o dell’irrisorio «Sia» voluto dal governo Letta (con 40 milioni di euro in tre anni). I fondi a disposizione sarebbero di 1 miliardo nei prossimi sei anni: 170 milioni circa all’anno. Una miseria per un sussidio contro la miseria. Lo riconosce lo stesso Poletti: «Servono ulteriori risorse».

«Un serio ministro del Lavoro – ha risposto Nunzia Catalfo, prima firmataria della proposta M5S – dovrebbe mettersi ad un tavolo per studiare le proposte esistenti. Le coperture finanziarie della nostra sono state ritenute ammissibili dal Senato nella discussione sulla Legge di stabilità». I Cinque Stelle sembrano convergere sui principi della campagna «reddito di dignità» di Libera, Bin e Cilap, valorizzando tra l’altro alcune caratteristiche della loro stessa proposta: erogazione individuale del reddito (e non al capofamiglia come prevedono i sussidi contro la povertà); la congruità dell’offerta di lavoro con il Cv del beneficiario.

Ieri la giornata di Poletti è stata segnata dall’aumento di 79 mila posti di lavoro a tempo indeterminato. Il dato lo ha comunicato durante una conferenza stampa alla regione Lazio sulla fallimentare «Garanzia Giovani», mentre una rappresentanza del laboratorio romano per lo sciopero sociale lo contestava in via Cristoforo Colombo. «Sono stati registrati nei due primi mesi del 2015. A gennaio risultano attivati 40.500 contratti a tempo indeterminato in più rispetto al gennaio 2014. A febbraio +38500.

Diversi giornalisti presenti hanno chiesto a Poletti se i 79 mila nuovi contratti fossero nuove forme contrattuali o sono vecchi contratti trasformati. Poletti ha risposto di «non sapere rispondere in dettaglio». La fonte della notizia sarebbero in realtà i dati sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Dato che la decontribuzione per le imprese contenuta nel Jobs Act è entrata in vigore il 7 marzo, l’aumento sarebbe il risultato degli sgravi contributivi stanziati dalla legge di stabilità. C’è tuttavia da considerare i dati sul lavoro precario. A febbraio su 558.802 attivazioni complessive, ben 420.760 erano precarie.

Un dato passato inosservato mentre Renzi ha azionato la grancassa: «È solo l’inizio. Ci hanno detto di tutto in questi mesi, ci hanno accusato di voler rendere la nostra generazione per sempre precaria. È vero esattamente il contrario: stiamo dando diritti a chi non ne ha mai avuti». I diritti sarebbero le «tutele crescenti» previste dal Jobs Act che prolungano sine die il precariato di cui parlano i dati.