L’inserimento nel calendario di settembre della Camera della mozione Sinistra italiana volta alla modifica dell’Italicum fa salire la temperatura del dibattito politico. Tecnicamente, l’inserimento rientra nello spazio dato all’opposizione, e dunque non assume il significato di una scelta politica che riapre il confronto parlamentare sulla legge. Ma di certo aiuta a capire le vere intenzioni di Renzi, e le reazioni delle forze politiche.

Da ultimo, il premier ha strizzato l’occhio a chi gli chiedeva di rimetter mano alla legge elettorale, dalla dissidenza Pd ai minori alleati di governo.

I rumors recenti sulle possibili modifiche dell’Italicum riguardano soprattutto la caduta del divieto di coalizione o di apparentamento per l’attribuzione del premio di maggioranza.

Va subito detto che si tratterebbe di un mero lifting, tale da lasciare sostanzialmente immutata la sostanza. Le pietre angolari del Renzi-pensiero sono infatti la forzosa riduzione in chiave bipolare di un sistema ormai tripolare, l’amplissima disproporzionalità tra voti e seggi, la possibilità di governi espressione di minoranze anche esigue, la incuranza per il principio del voto eguale. Solo così è infatti possibile assicurare in ogni temperie politica l’esito voluto: avere la sera del voto un vincente cui attribuire numeri parlamentari maggioritari, pur se posticci e taroccati rispetto ai consensi reali. E tutto questo rimarrebbe tal quale, che la legge consentisse o meno apparentamenti e coalizioni. Con buona pace, ancora, del rispetto dovuto alla sentenza 1/2014 della Corte costituzione, sulla illegittimità del Porcellum.

Ma la modifica servirebbe a Renzi per mettere nell’angolo M5S, che le ultime amministrative hanno messo in mostra come un competitor assai più pericoloso di quanto si potesse pensare. Il movimento è stato infatti capace di calamitare meglio del Pd i consensi degli esclusi dal ballottaggio, prevalendo nel secondo turno anche su chi aveva un ampio vantaggio nel primo. Il caso Torino insegna, e in un simile scenario l’impianto dell’Italicum è un errore da dilettanti. Così capiamo bene perché autorevoli esponenti M5S abbiano immediatamente diffidato il Pd a non modificare in alcun modo la legge elettorale. Come bene anche si capisce che la modifica venga fortemente chiesta dall’interno del Pd e dai minori alleati di governo. Qui vediamo essenzialmente le ansie connesse a piccole sopravvivenze individuali e collettive. Al premier converrebbe placarle, senza costi significativi sulle cose che contano davvero.
Si è sentito anche qualche cenno alla possibile estensione della preferenza ai capilista. Sul punto sembra meno probabile che il premier voglia fare marcia indietro. Il controllo per quanto possibile serrato della scelta dei 340 da portare in parlamento con il premio di maggioranza è infatti utile al disegno dell’uomo solo al comando. Tale controllo si consegue gestendo come segretario del partito le liste dei candidati. A tal fine è utile poter garantire i fedelissimi con la posizione di capolista, completando la squadra con una accorta gestione delle liste brevi che la legge prevede per la piccola dimensione dei collegi. Un segretario di partito che decide su quelle liste può, affiancando candidati deboli a candidati forti, predeterminare in larga misura i candidati da eleggere. Così si costruiscono le condizioni per controllare la maggioranza parlamentare. Il voto bloccato sui capilista non è in senso stretto indispensabile. Se anche non ci fosse, collegi piccoli e liste brevi sarebbero utili allo scopo. Ma concorre certo efficacemente al risultato.

Le modifiche di cui si discute sono dunque una gruccia per il precario fronte del sì nel referendum costituzionale, mentre le censure politiche e costituzionali sulla legge rimangono tutte. Questo assume in particolare rilievo considerando i sussurri sulla Corte costituzionale, che il 4 ottobre si dice potrebbe orientarsi per l’inammissibilità della questione sollevata, al momento, da Messina. La motivazione si troverebbe nell’essere stata la questione sollevata prima della scadenza del 1 luglio, fissata dalla stessa legge per il prodursi dei propri effetti. Si tratterebbe di un profilo nuovo rispetto a quelli considerati nella sentenza 1/2014. Vedremo. Certo, una pronuncia di inammissibilità consentirebbe alla Corte di evitare di inoltrarsi in un campo certamente minato, al tempo stesso senza contraddire espressamente la propria precedente giurisprudenza. Una simile prospettiva renderebbe in sostanza irrilevante la querelle sulla interferenza tra la data della pronuncia della Corte e quella del referendum.

Rimarrebbe dunque decisivo lo scenario generale segnato dall’indebolimento di Renzi, in specie dopo le amministrative, e dai crescenti timori per l’esito del referendum costituzionale. È chiaro che Renzi si è avviato sulla via del plebiscito su se stesso sicuro di indossare il laticlavio di padre costituente circondato dal popolo festante. Bene che gli vada, una metà del paese lo coprirà di contumelie.