Vladimir Putin tornato da Pechino, dove ha partecipato alla parata militare della Cina per celebrare la liberazione dal Giappone, si è recato all’Eastern Economic Forum di Vladivostok. Nella cornice di casa si è espresso su due temi particolarmente rilevanti in questo momento, dando il via a nuove possibilità e scenari soprattutto per quanto riguarda la Siria.

Il modo migliore per leggere e interpretare la parole del presidente russo, deve necessariamente tenere presente la parallela situazione libica, dove ormai sembra sempre più vicino un intervento militare, e quella ucraina, dove invece la Russia sembra aver sganciato il Donbass, dopo aver assicurato la spinta europea e americana affinché Kiev garantisca alle regioni orientali un’autonomia propria.

Per quanto riguarda la crisi dei migranti Putin ha detto quanto pensano tutti: la colpa è dell’Occidente, si tratta di un fenomeno ampiamente prevedibile, ma non calcolato dalla superbia occidentale. «Penso che la crisi fosse assolutamente prevista», ha detto Putin ai giornalisti a margine del Forum di Vladivostok. «Noi in Russia, e io personalmente qualche anno fa, abbiamo detto chiaramente che sarebbero emersi tali gravi problemi se i nostri cosiddetti partner occidentali continuano a mantenere la loro politica estera sbagliata, soprattutto nelle regioni del mondo musulmano, Medio Oriente, Nord Africa», ha spiegato.

Secondo il presidente russo, la responsabilità occidentale, con un chiaro riferimento alle guerre umanitarie degli Stati uniti è «l’imposizione di proprie norme in tutto il mondo, senza tener conto delle caratteristiche storiche, religiose, nazionali e culturali di particolari regioni. L’unico modo per invertire il flusso di rifugiati in Europa è quello di aiutare le persone a risolvere i problemi a casa loro e il primo passo dovrebbe essere la creazione di un fronte comune e unito contro i gruppi jihadisti come l’Isis», ha aggiunto Putin.

Ed eccoci al secondo punto fondamentale e che probabilmente potrebbe costituire una svolta storica per la crisi siriana, ma anche per gli equilibri internazionali. Secondo Putin, l’unica soluzione per tornare a ricostruire le economie nazionali dei paesi falcidiati dalla guerra e per «convincere le persone terrorizzate a tornare nei propri paesi» è sconfiggere il terrorismo, «nel pieno rispetto di storia, cultura e tradizioni locali». Al di là della retorica, c’è qualcosa in più: Putin ha specificato apertamente di aver discusso con Obama (e Turchia e Arabia Saudita, particolare non di poco conto, visto il peso del paese nell’area e rispetto agli Usa) per la nascita di una coalizione antiterrorismo, capace di sconfiggere l’Isis.

A questo proposito, inoltre, Putin ha smentito quanto circolato alcuni giorni fa sui media britannici e israeliani, secondo i quali militari russi sarebbero già impegnati sul campo con Assad.

Rispondendo a chi gli chiedeva se la Russia possa essere coinvolta in azioni militari dirette contro militanti dello Stato islamico attivi in Iraq e Siria, il presidente russo ha affermato che è troppo presto per discuterne. «Stiamo già fornendo un sostegno piuttosto forte alla Siria con tecnologia e formando militari», ha aggiunto Putin. In tutto questo contesto Mosca ha provato anche a smarcare il problema di tutto il ragionamento, ovvero Assad, nemico proprio delle potenze occidentali e dei sauditi.

Putin, forse nel tentativo di salvare il suo alleato, ha dunque annunciato la possibilità che Assad sia disposto a sottoporsi ad un test elettorale, nell’ambito della fervida attività diplomatica russa sulla Siria. «Il presidente siriano concorda (con l’idea delle elezioni ndr) – ha precisato Putin – ed è pronto a tenere elezioni anticipate, in particolare quelle parlamentari, a stabilire contatti con la cosiddetta opposizione “sana” e a farla entrare nel governo».

Una strategia di ampio raggio che coinvolga tutte le forze anti-islamiste oggi impegnate sul campo, kurdi, eserciti regolari, ribelli moderati, coalizione globale. Con una simile proposta, Putin si infila i panni che indossò nel settembre 2013 quando fermò la minacciata aggressione Usa contro la Siria, guadagnandosi l’appoggio di papa Francesco: con un fine lavoro diplomatico, Mosca convinse Assad a smantellare l’arsenale chimico siriano, costringendo Obama al dietro-front.

Oggi la storia si ripete. Proponendo transizione politica e cooperazione militare, Putin smaschera le mire dell’asse Washington-Ankara-Riyadh, il cui millantanto obiettivo di liberarsi dell’Isis sottende a quello reale, liberarsi di Assad. È possibile che il destino del presidente siriano sia segnato, agnello sacrificale sull’altare degli interessi mondiali in Medio Oriente.

Ed il timore è che l’interferenza esterna possa portare ad una divisione del potere secondo le quote etniche e religiose imposte a Libano e Iraq, modelli fallimentari perché fondati sul rafforzamento dei settarismi invece che sull’unità nazionale.

Ma ci si dimentica del convitato di pietra: l’Iran, testa del fronte sciita e alleato russo, difficilmente permetterà che a Damasco si imponga una realtà che non rientri nel suo raggio di influenza.