[L’estesa copertura giornalistica assicurata la scorsa primavera dai media italiani ed europei alla vicenda di Donald Sterling, il proprietario dei Los Angeles Clippers radiato dalla Lega di pallacanestro americana (NBA) per le frasi razziste pronunciate durante una telefonata con la fidanzata, ha mostrato una volta di più il carattere planetario del campionato statunitense, che il prossimo 28 ottobre inaugurerà la sua 69esima edizione. Tanto quanto ama la musica, il cinema e gli hamburger a stelle a strisce, il resto del mondo snobba però gli sport yankee. Il baseball è per lo più ignorato fuori dagli Usa e il football, nonostante i faraonici battage promozionali che precedono l’annuale Super Bowl, rimane uno sport prettamente alieno alla tradizione e al gusto di chi americano non è. L’eccezione a questa regola è rappresentata per l’appunto dal basket NBA, autentico prodotto globale che attira giocatori da tutti gli angoli della Terra e diffonde le immagini delle sue gare attraverso tutte le televisioni del pianeta. Oggi può sembrare strano, ma non è sempre stato così. Fino a quasi tutti gli anni ‘70, la NBA era un campionato sull’orlo del tracollo finanziario, paralizzata dal fatale diffondersi della cocaina, con indici di gradimento calanti presso i telespettatori, senza stelle in grado di accendere la fantasia dei tifosi e soprattutto incapaci di trasformare le loro gesta in una metafora entusiasmante della vita. Tutto cambiò il «Columbus day» di 35 anni fa: così come 500 anni prima Cristoforo Colombo aveva svelato al mondo l’esistenza del continente americano, il 12 ottobre 1979 Larry Bird ed Earvin Johnson disputarono la loro prima gara nel campionato NBA e prepararono il vero e unico dono sportivo che l’America ha mai offerto agli appassionati di tutto il mondo. I due non potevano essere più diversi. L’uno bianco e l’altro nero; il primo, un po’ musone e un po’ introverso, proveniente da un minuscolo e poverissimo villaggio rurale dell’Indiana; il secondo dal largo sorriso contagioso, originario della capitale e del cuore industriale del Michigan; il biondo così consapevole delle proprie umili origini da auto-definirsi un «bifolco», l’altro segnato fin dall’adolescenza dalla «magia», il nomignolo che rappresentava una promessa di incanto e di spettacolo. Bird approdò ai Boston Celtics, che ne fecero l’esordiente più pagato della storia degli sport professionistici americani, e Magic attraversò il continente per accasarsi ai Los Angeles Lakers. Larry e Magic si inserirono pertanto nella più celebre rivalità sportiva d’America, quella che opponeva la glaciale, tetragona e orgogliosa capitale del Massachusetts, alla rutilante, superficiale e fascinosa Città degli angeli: da una parte la ferrea voglia di vincere, la dedizione al lavoro e la solidarietà di squadra; dall’altra il talento puro, l’atletismo e lo showtime. Questi i tratti psico-sociologici di un antagonismo che risaliva agli anni ’50 e ’60, quando i Celtics avevano imposto la propria dittatura vincendo undici titoli in tredici anni, sette dei quali proprio contro gli avversari del Pacifico. Larry e Magic rivitalizzarono le due franchigie, poiché Boston passò in un anno dall’ultimo posto del campionato al miglior record della Lega e i Lakers conquistarono nel 1980 quel titolo che agognavano da ormai sette anni. Ma soprattutto contribuirono a disinnescare il potenziale conflitto razziale che si alimentava anche degli scontri che avvenivano sui parquet, inducendo i vertici della Lega a spendere tempo ed energie per spiegare ai nuovi fan qual era il vero passato cui dovevano guardare. All’inizio degli anni ’80, dopo che i giocatori di colore avevano appena conquistato una netta egemonia sul gioco, un giovane afroamericano medio detestava i Celtics, che oltre a Bird schieravano i bianchi Kevin McHale, Danny Ainge e Bill Walton. Non significava niente che le operazioni fossero dirette dalla panchina dal coach di colore K.C. Jones. Al contrario, nel cielo dei Lakers brillavano tutte stelle nere, da Jamaal Wilkes a Norm Nixon, dallo stesso Magic al carismatico Kareem Abdul Jabbar, che in gioventù aveva sposato la religione musulmana ripudiando il nome di Lew Alcindor e aveva altresì boicottato le Olimpiadi del 1968 quale forma di appoggio al «Black power» e alla lotta per i diritti civili. Non aiutava i Celtics il fatto di rappresentare Boston, ritenuta un luogo inospitale per gli afro-americani, anche a causa della ben nota intolleranza delle sue minoranze irlandesi e italiane. Lo strisciante razzismo si era eclatantemente rivelato negli sconfortanti dati sulla segregazione scolastica, che nel 1974 incoraggiarono le autorità dello Stato a organizzare il trasporto obbligatorio degli studenti verso gli istituti meno integrati, così da riequilibrarne la composizione razziale. Il malcontento e l’insofferenza covarono sotto la cenere con sporadici episodi di conflitto per due anni, fino a che sfociarono nei clamorosi scontri di piazza dell’aprile 1976, che pretesero un alto contributo di sangue e rafforzarono la terribile nomea della città. Dividendosi le vittorie nella prima metà del decennio, Celtics e Lakers rinfocolarono il contrasto sportivo e pericolosamente aizzarono quello sociale. Soprattutto le finali del 1984, che coincisero con l’apogeo di Larry Bird e viceversa furono assai dolorose per Magic, i cui errori decisivi gli meritarono il nuovo soprannome di «Tragic Johnson», furono particolarmente aspre, con frequenti scontri di gioco e altrettanti richiami alla retorica battagliera da parte dello stesso Bird, che all’indomani di una meritata sconfitta accusò i compagni di giocare come signorine e di aver tradito l’orgoglio bianco-verde. L’anno seguente, L.A. ebbe la sua rivincita. Per la prima volta nella storia, i Lakers conquistarono il titolo sul parquet dei rivali, trascinati dal 38enne Jabbar e da un sempre più effervescente Magic, il quale superò l’acerrimo rivale nel pantheon della palla a spicchi nella serie conclusiva della stagione 1986-87 e infine bissò il successo l’anno seguente, facendo dei giallo-viola la prima formazione capace di succedere a se stessa, da che ci erano riusciti proprio i Celtics venti anni prima. Bird e Magic erano nel frattempo diventati buoni amici, protagonisti in tandem di spot pubblicitari e infine membri affiatati del «Dream team», la prima compagine di professionisti che trionfò alle Olimpiadi di Barcellona del 1992. I due campioni vi si accostarono quasi nel ruolo di padri nobili, dato che per Bird si trattò dell’ultimo impegno ufficiale prima che lo costringesse al ritiro la schiena fiaccata da anni di  logorio e Magic vi tornò addirittura dall’abbandono forzato cui era stato costretto nel novembre 1991, dopo aver contratto il virus dell’HIV. Se nel paese i problemi legati alla questione razziale restavano irrisolti, come dimostrarono nel 1992 le rivolte che infiammarono proprio Los Angeles dopo il pestaggio del taxista nero Rodney King da parte della polizia, la cordiale e fiera contrapposizione fra Bird e Magic permise di guardare con più accuratezza alla storia dei Boston Celtics e a ristabilire alcune verità dimenticate. I Celtics erano infatti stati la prima franchigia a scegliere un giocatore afro-americano, Chuck Cooper nel 1950, i primi a spedire in campo un quintetto all-black nel 1964 e subito dopo il primo club ad affidare la panchina a un nero, Bill Russell. Anche grazie a quei precedenti, Larry «Legend» Bird ed Earvin «Magic» Johnson divennero insieme il più efficace ed edificante strumento di propaganda della Lega, che vendeva all’estero la loro immagine come la migliore testimonianza di un sistema improntato ai valori dell’inclusione e della multiculturalità. Quegli stessi principi in nome dei quali, per tornare all’incipit di questa storia, il miliardario Sterling è stato messo alla porta dalla comunità dei suoi pari. Forse con troppa concessione alla retorica secondo il parere di molti cinici, ma certo con minore discredito di quello gettato sulla Federcalcio italiana e sul paese intero da Carlo Tavecchio, eletto presidente nonostante gli scivoloni razzisti, per i quali è stato ora giustamente squalificato dall’Uefa.