Annie Ernaux ci accoglie nella sua casa a nord dell’area metropolitana di Parigi. Pensiamo alle stesse stanze descritte nei suoi romanzi: le finestre, grandissime, si affacciano sul tratto naturalistico della Valle dell’Oise, verdissima e acquitrinosa; invece la stanza dove Annie Ernaux scrive è situata a nord e la sola finestra, centrale e rivolta agli alberi del giardino, si trova simmetricamente esposta sulla scrivania.

La scrittrice sceglie di risponderci riguardo alle sue narrazioni e alla condizione femminile nella società francese contemporanea.

Virginia Woolf nel 1929 pubblicava «Una stanza tutta per sé», luogo simbolico della libertà intellettuale e al contempo luogo reale della scrittura. Ci può raccontare qualcosa della sua stanza, di come attraverso la sua concezione della memoria i ricordi riaffiorino?
Adoro Virginia Woolf e ho molto amato Le Onde, testo sul quale – tra l’altro – ho preparato la mia tesi. Per svariati motivi rappresenta la bellezza assoluta, ma soprattutto per la visione della natura, che è rappresentata come qualcosa di magnifico e insieme di mortale. «La stanza tutta per sé» è stata per me il luogo della lettura e in primis quello della scrittura. Solo verso i tredici anni ho avuto una stanza tutta per me. Prima stavo in quella dei miei genitori e leggevo sulle scale, dove salivano il calore e i rumori dell’épicerie-café dei miei. Più tardi la mia stanzetta è diventata il luogo in cui, figlia unica, mi tenevo compagnia con l’immaginazione e i sogni. Da adulta, la ricerca di uno spazio per me sola ha costituito un’esigenza inevitabile, ed è per questo che ho sempre lavorato, anche dopo che i miei libri hanno avuto successo: non volevo che scrivere diventasse un dovere imprescindibile. Quando immaginavo un luogo per vivere pensavo a qualcosa di più grande di una stanza, sicuramente mi pensavo tutta sola e intenta a scrivere, questa era la mia idea di libertà. Ora la mia libertà è essenzialmente la mia scrivania; è il luogo da cui viaggio secondo una geometria di cerchi concentrici da cui talora mi distacco per immergermi nel mondo reale, sulla rete ferroviaria che collega le periferie a Parigi, e per calarmi nella dimensione della mia memoria.

In che modo la memoria privata può trasformarsi in evocazione collettiva?
Nei miei romanzi ho cercato di sconvolgere il modello tradizionale dell’autobiografia. Questo desiderio si è esplicitato in particolare dopo gli anni Ottanta: i romanzi successivi a Il posto (L’Orma) sono meno autobiografici, più «socio-auto-biografici» e più liberi, perché alla ricerca di un passato non solo personale. Scrivere è diventato l’esercizio di una speciale esplorazione dove invece di reperire il sé del mio passato ho cercato di perderlo in una realtà più allargata, quella di una cultura, di un’epoca, di una condizione d’esistere che non fosse solamente la mia. Il ricordo inteso come souvenir personale mi interessa solo in quanto espediente per trovare una sorta di coscienza espansa che mi aiuta a ricordare gli eventi accumulati nel tempo.
Ho sentito l’oppressione in quello che anche altrove definisco «il linguaggio dei dominanti», cioè un codice straniero che ha rigettato chi come me proveniva dal milieu popolare. È per questo che nei miei romanzi ho cercato di evitare questo codice, perché la mia lingua di appartenenza sociale è stata quella dei dominati (la classe popolare, quella contadina e operaia della campagna normanna). Per lingua dei dominanti intendo pure la lingua del codice patriarcale, anche di quello letterario, a cui si è costretti ad accedere per ragioni professionali, intellettuali o artistiche. Dopo una lunga riflessione personale, nei primi anni Ottanta, ho tentato di sfuggire a questa logica estranea, optando per una lingua diversa, in piena coscienza e volontà.

Ci parli del punto di vista tramite cui descrive e costruisce i suoi libri. In che modo, nel suo romanzo «Gli anni» (L’Orma), la scelta della focalizzazione interna, attraverso il privilegio del «Lei», risponde ai suoi bisogni di scrittrice? Questa scelta deriva da una necessità di neutralità e oggettivazione, dal desiderio di distacco oppure dall’esigenza di rendere molteplice l’io narrante?
Per me la riflessione teorica è qualcosa di preparatorio, di un percorso a prescindere che non traspare necessariamente. Tuttavia, nel momento della scrittura, mi pongo costantemente delle questioni di natura teorica, o meglio ideologica: rifletto sullo stato della società. Anche su temi cruciali, come quello razziale: se nel momento di scrivere decido di riferirmi a «una donna nera» per esempio, questo riferirmi non è neutro bensì mi pone in un solco critico, identitario e relazionale. Devo confessare che effettivamente una riflessione teorica che torna costantemente riguarda proprio il punto di vista da cui raccontare. Il mio sentimento nei confronti della voce narrante è sempre quello di uno sdoppiamento, perché io sono, e mi sento, sia l’autrice sia la narratrice dei miei scritti. Cercavo qualcosa che desse conto del fatto che in quanto esseri umani rappresentiamo delle individualità ma costituiamo altresì il mondo (l’epoca e il luogo). Ne Gli anni, secondo l’idea che è il mondo ad attraversarci, avrei voluto che la voce narrante fosse plurale, in ordine al mio desiderio di raccontare una verità storica collettiva; tuttavia il «noi» non avrebbe potuto esaurire il mio desiderio espressivo, poiché le azioni del singolo sarebbero andate a perdersi, a dileguarsi. È stato in quel momento che l’immagine di me bambina mi è venuta in soccorso: mi sono ricordata di una vecchia fotografia che mi ritraeva stesa sui sassi, in riva al mare, con gli occhi chiusi, i capelli intrecciati e con indosso un costume da bagno chiaro. Ho pensato che avrei dovuto parlare tramite quella voce, la sua voce.

Nonostante le lotte di emancipazione e liberazione, insieme all’acquisizione dei diritti, il controllo sul corpo della donna permane seppure mutato di segno. In nome dell’identità nazionale francese, provvedimenti amministrativi sostituiscono un dialogo che dovrebbe calarsi nella materialità delle vite. Come si rapporta, come donna e femminista a questa trasformazione?
La questione dell’identità, o meglio la continua ripetizione di questa definizione, affligge la società francese almeno da prima degli anni Novanta. Mi raccomando, ci tengo a dire che non si tratta dell’identità femminile, che è altra cosa. Credo che in Francia si parli di identità culturale per negare le molteplicità: sussiste il rifiuto di riconoscere le identità plurali e l’accoglienza é stata sostituita dalla volontà di proteggersi. Questa traiettoria del pensiero non risale al recente clima degli attentati, ma a molto più lontano nel tempo – a una scelta di opporsi, di irrigidirsi, in definitiva di arroccarsi contro qualcosa o qualcuno. Ciò deriva dall’idea di nazione francese intesa come corpo definito e circoscritto. E voglio ricordare la nozione di «corpo dello stato» degli anni Quaranta: le camere riunite concessero pieni poteri a Philippe Pétain, con le nefaste conseguenze che conosciamo. Aborrendo questa logica di corpo dello stato trovo persecutori i provvedimenti presi nei confronti delle donne musulmane. Si tratta da una parte di prese di potere che esplicitano un’insofferenza nei confronti dell’Islam, dall’altra della messa in pratica dell’ennesimo dispositivo di controllo sul corpo delle donne. Trovo vergognosa la nota immagine che ha fatto il giro dei media internazionali (una donna in spiaggia costretta a spogliarsi del burkini, ndr) e non esagero a dire che mi ha ricordato le immagini passate di donne costrette a spogliarsi, pur in altri contesti. Non nutro alcun dubbio in merito alla giustezza dell’affermazione che siamo di fronte all’ennesimo tentativo di controllo sui nostri corpi, sussiste infatti una forma di vessazione ossessiva, alimentata dall’evidenza che le donne continuano a non essere ascoltate. La violenza si nutre dell’assenza di dialogo e dell’opinione pregiudiziale. Le donne sono escluse a causa di queste «assenze», che le rendono ulteriormente invisibilizzate e recluse.