Per molte persone, magari non più giovanissime, la parola «pubblicità» evoca immediatamente piccole rotture di scatole, interruzioni del film in tv durante le quali si legge il giornale; pop-up e banner che si aprono in internet impedendoci di vedere subito quanto stavamo cercando. Noi adulti non siamo più la generazione della pubblicità-spettacolo di Carosello, e siamo ancora la generazione della pubblicità-disturbo, male inevitabile. In realtà, come ho potuto constatare senza eccezioni in anni di insegnamento, i ventenni adorano la pubblicità. Anche l’argomento più noioso appare interessante se usiamo come esempio la pubblicità. Sono pronta a scommettere che immagini di spot siano usate ormai nei corsi più disparati per la semplice ragione che calamitano la sempre più ondivaga attenzione degli studenti. La spiegazione più semplice è che questi ragazzi sono vissuti a pane e pubblicità fin dalla culla.

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Ma è una spiegazione che non mi convince più: i prodotti pubblicitari sono cambiati rispetto al tradizionale spot televisivo ed è cambiato anche il modo in cui i giovani, ma ormai anche molti adulti, guardano la pubblicità. La televisione generalista non registra grandi cambiamenti negli ultimi trent’anni se non nella tipologia dei prodotti reclamizzati: seguendo il processo di invecchiamento della popolazione, e quindi del target commerciale, abbiamo avuto un profluvio di pannolini per neonati, corredato di baby talk (bidibodibu, fuoriuscite di pupù, ecc.); poi, con la crescita delle «baby boomer» e la liberalizzazione di certi tabù, si è assistito alla concorrenza fra assorbenti femminili, alati, ultrassorbenti, ultra sottili, ultra anatomici fino ai più recenti, gommosi e trasparenti, che non si capisce come possano assorbire alcunché. L’ultimo imperatore è però il pannolino-pannolone per l’incontinenza, così come «la bocca che può dire ciò che vuole» è stata sostituita dalla «bocca che può addentare ciò che vuole» grazie al fissativo per dentiere.

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Se la rivoluzione della pubblicità consistesse in questo, non si capirebbe perché un giovane dovrebbe amare un mondo popolato di creme antirughe, ops-piccole perdite, pillole per la prostata o contro le vampate della menopausa, pomate contro il dolore articolare che permettono alle nonne di sollevare anche bambini in sovrappeso. E infatti questa non è la pubblicità che vedono i giovani i quali, come si sa, guardano sempre meno la televisione generalista preferendo internet sia per la musica che per le serie (e per l’informazione, poca). E su internet le cose cambiano perché vi convivono forme assai diversificate di comunicazione pubblicitaria, alcune delle quali non molto diverse dai prodotti mediatici che il target più giovane predilige, come le serie d’azione e i videoclip. Una fondamentale innovazione della forma-spot era stata apportata a partire degli anni Ottanta dalla rivoluzione digitale: i cartoni animati e i fotomontaggi che prima tentavano di aggirare la staticità del montaggio analogico, erano stati via via sostituiti da montaggi digitali veloci, immagini in continua metamorfosi con un generale venir meno delle coordinate spazio-temporali forzatamente realistiche di prima. Contemporaneamente era finita l’era delle censure della tv pedagogica, uno sfrenato liberismo identificava belle ragazze bionde con birre spumeggianti e belle ragazze ambrate con gommose alla liquirizia. Ma, come dice Umberto Eco quando parla dei «passi di gambero» della storia, anche rispetto a questo stadio euforico della pubblicità ci sarebbe stato un doppio ritorno: sul piano formale, con estetiche vintage che avrebbero in molti casi recuperato stili del passato; sul piano etico, con una nuova sensibilità verso la dignità delle donne, delle etnie, del buon gusto, ecc. Per cui in tempi recenti, per pubblicizzare una marca di chips, si può tentare di far passare Rocco Siffredi come «esperto di patate», ma la cosa si impantana presto nelle nuove secche del politicamente scorretto.

La pubblicità trova in internet un nuovo luogo di convivenza di epoche e generi. Martin Scorsese può girare per Dolce e Gabbana uno spot in bianco e nero che richiama la cinematografia dei primi anni Sessanta, anche se i divi oggi si chiamano Scarlett Johansson e Matthew McConaughey; ma al contempo Guy Ritchie può sperimentare, per Nike, tecniche digitali all’avanguardia per uno spot dai ritmi convulsi, girato tutto in soggettiva, impensabile fino ad alcuni anni fa sia dal punto di vista tecnico che da quello dei gusti del pubblico.
Quindi, se non approvavo i miei studenti quando amavano regressivamente il Mulino Bianco della loro infanzia, come posso dar loro torto adesso se nella loro dieta mediatica inseriscono anche molta pubblicità? Secondo i nuovi guru del marketing, oggi non sarebbe più importante pubblicizzare un prodotto o una marca ma raccontare storie in cui la gente possa identificarsi, sincronizzando a livello globale varie visioni del mondo. Ed è vero che sotto alcuni filmati il numero dei like è impressionante, raggiungendo in alcuni casi l’ordine di miliardi di persone. Ma è anche vero che, a livello stilistico, la proposta pubblicitaria sulla rete è oggi la più differenziata della storia e dall’esposizione alla differenza nascono generalmente maggior riflessione e distacco.