Minacce terroristiche, mail segrete tra i vertici di uno Studio e membri del governo Usa, analisti politici pagati per valutare gli effetti pratici dell’assassinio di un leader straniero su celluloide, milioni, milioni di dollari persi in biglietti che non saranno mai venduti, e –come se non bastasse- gli impiegati che iniziano a fare causa. La fantapolitica demenziale di James Franco e Seth Rogen diventa improvvisamente più seria. Tra la sera di martedì e quella, le cinque maggiori catene di multiplex americani (Carmike Cinemas, Bow Tie, Regal Cinemas, Cineplex e Amc Entertainment) hanno annunciato che The Interview non sarà programmato nelle loro sale, dove doveva uscire il giorno di Natale. Nello stesso arco di tempo, a New York, la Landmark Theaters ha cancellato la premiere del film prevista per questa sera. Gli effetti del peggiore episodio di hackeraggio della storia di Hollywood, compiuto ai danni della Sony, cominciano a farsi sentire ben aldilà dell’incidente tecnologico/diplomatico in cui la Major di proprietà giapponese si dibatte ormai da settimane.

Un comunicato dei Guardians of Peace, i guardiani della pace, il gruppo che si è autoidentificato come responsabile dell’hackeraaggio promette le maniere forti; e «un destino amaro» per coloro che andranno a vedere il film «del terrore» in cui un conduttore di trash tv interpretato da James Franco, e il suo produttore (Seth Rogen che è anche co sceneggiatore e regista), invitati da Kim Jong-un per un’intervista esclusiva, vengono contrattati dalla CIA per ucciderlo. «Un mondo pieno di paura», il fantasma dell’11 settembre e il consiglio «di uscire di casa» a chi vive nei paraggi di un cinema dove da(ra)nno The Interview, sono citati nel messaggio di ammonimento, scritto con un inglese un po’ goffo e dai toni apocalittici, diffuso martedì. La Sony non ha ancora ritirato ufficialmente il film (la cui distribuzione in Asia è stata già però esclusa quasi del tutto) ma dichiara che non farà opposizione agli esercenti Usa che decideranno di non mostrarlo. Da parte sua, la Nato, l’associazione nazionale degli esercenti, ha detto che lascia la scelta di programmare il film o meno ai proprietari delle sale.

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Dopo l’imbarazzo degli scambi di mail razzisti tra la capa della Sony Pictures Amy Pascal e il produttore «illuminato» Scott Rudin, dei pettegolezzi acidi su Angelina Jolie e vari luminari di Hollywood, dopo i leak delle sceneggiature del prossimo 007, degli stipendi e degli pseudonimi delle star, oltre che delle informazione private dei dipendenti, a cui si è aggiunta la messa in rete di tre dei film natalizi dello Studio, i Guardiani avevano annunciato «un regalo di Natale» che avrebbe riguardato in particolare le mail di Michael Lynton, il CEO. Almeno una porzione di quel regalo è arrivata ieri sotto forma di corrispondenze tra Lynton e Bruce Bennett un analista della RAND Corporation specializzato in Corea del Nord, assunto dallo studio come consulente su The Interview, probabilmente dopo il primo comunicato ufficiale contro il film emesso dal governo nordcoreano, il 10 giugno scorso. Negli estratti dello scambio di mail pubblicati sul sito Daily Beast stupisce non tanto che la Sony sia ricorsa all’opinione di un politologo per valutare i possibili effetti di una commedia dell’assurdo il cui finale include una scena in cui la testa di Kim Jong-un viene fatta scoppiare con un missile, ma che quel consulente abbia pensato che la scena sarebbe stata une forma efficace di propaganda contro il regime.

Con una logica che piacerebbe molto al dottor Stranamore, citando alcuni dei suoi stessi studi, Bennett ribadisce infatti a Lynton che «l’assassinio di Kim Jong-un è probabilmente l’unica strada per garantire il collasso del suo governo» e che di conseguenza la scena in questione avrebbe ispirato delle «serie pensate» in Corea del Sud ma anche del Nord «una volta che il DVD sarà diffuso illegalmente». Per l’esperto, quindi, la scena andava assolutamente inclusa. Contattato (sembra) da Bennet, anche l’ambasciatore Robert King, inviato speciale per i diritti umani in Corea del Nord, dopo aver visto The Interview, non avrebbe manifestato grosse preoccupazioni per gli effetti collaterali dell’ultima scena (si sa, a Pyongyang sono degli sbruffoni) lasciando alla Sony la decisione di cosa farne.

Alla fine è rimasta nel film, anche se resa meno truculenta da qualche taglio, dopo mesi di braccio di ferro sull’autonomia creativa tra Amy Pascal e i filmmakers. Seth Rogen, che ha 32 anni, e le cui ultime due commedie, Neighbors e This is The End hanno incassato un totale di circa 250 milioni di dollari, ha difeso il suo lavoro: «Nessuno mi ha ancora provato al 100% che il nostro film è la causa di tutto quello che sta succedendo. Non siamo certo i primi a far luce sulla follia della Corea del Nord, i miti che la circondano e le stranezze del regime», ha dichiarato in un’intervista rilasciata, insieme a James Franco, al New York Times. Poteva aggiungere che, in un’economia globale in cui gli incassi all’estero sono sempre più cruciali per la fortuna economica di un film hollywoodiano, la Corea del Nord è rimasta praticamente l’ultimo cattivo….a prova di bomba.

Ma Rogen ha ragione, The Interview potrebbe essere una scusa. Pyongyang (che si dice estranea all’attacco informatico ma ne applaude i risultati) potrebbe non entrarci per niente. E magari i Guardiani che hanno messo in ginocchio una Major, sono dei ragazzi di Palo Alto che si stanno divertendo. Come Rogen, Goldberg e James Franco con il loro film, da cui intanto, a forza di stroncature, stanno prendendo le distanze tutti i critici. The Interview non è certamente Il dottor Stranamore, Il grande dittatore e nemmeno Hot Shots 2, la buffissima commedia di Jim Abrams in cui Charlie Sheen riduce Saddam Hussein in briciole con il contenuto di un idrante. Ma anche una commedia non troppo riuscita ha i suoi diritti…