Compie il quarto di secolo il Mittelfest, e ha scelto di farsi inaugurare in gran pompa dal Requiem verdiano che Riccardo Muti, dedicandolo ai caduti della Grande guerra scoppiata proprio cent’anni fa, ha diretto tre settimane fa sul monumentale sepolcreto di Redipuglia, con diretta tv e replica la prossima settimana. Peccato nei titoli di testa il festival di Cividale, che pure non avrà evitato un lauto contributo alla gran serata nazionalissima, non comparisse proprio. Del resto anche il programma di quest’anno, almeno sulla carta, non offriva richiami forti. Pure se il nuovo direttore artistico, Franco Calabretto, nominato dopo anni di latitanza seguiti alla felice esperienza di Moni Ovadia, è un musicologo di classe, e la musica infatti ha offerto il programma più allettante, rinverdendo gli allori degli anni di Carlo de Incontrera. Molta la danza presente, con parecchi nuovi coreografi italiani interessanti, ma l’effetto più clamoroso presso il pubblico l’hanno riscosso le danzatrici volanti sulle pareti, Elena Annovi e Simona Forlani, che sulle indicazioni di Wanda Moretti volavano sulle facciate a diversi piani di altezza. E non minore successo hanno riscosso i gemelli cechi Jiri e Otto Bubenicek, etoiles consacrate dalle esibizioni accanto a Roberto Bolle.
Un po’ sacrificato è rimasto invece il teatro, che è stato per molti anni il punto di forza della manifestazione all’epoca di Giorgio Pressburger direttore. Qui a firmare il programma in veste di «consulente» (quanti pasticci è in grado di elaborare la politica in campo culturale anche quando la governatrice è la vicesegretaria del Pd) è Rita Maffei del Css di Udine. Forse per il ritardo con cui ha avuto l’incarico, il programma è davvero modesto per un festival che ambisce al dialogo con le culture del Centroeuropa, e lo è soprattutto per la rappresentanza italiana. Vi sono attori della regione che hanno dimostrato di essere dei professionisti di valore, e sono costretti a poco più di una «lettura» (Fagiolo, Collavino, Carucci Viterbi), dei nomi non sconosciuti ma «grigi», riesumati chissà perché, e alla fine le uniche presenze di interesse sono quelle che vengono da oltreconfine, e le glorie certe nazionali. Luca Ronconi in testa, di cui viene portata (stasera al Ristori) quella Danza macabra che ha debuttato di recente a Spoleto, e che rilegge Strindberg in maniera assolutamente originale, con proiezioni nell’universo dei vampiri che dominano il triangolo familiare cui danno vita Adriana Asti, suo marito (in scena e nella vita) Giorgio Ferrara e il malcapitato Giovanni Crippa, vittima più che «terzo incomodo».
Venendo agli ospiti teatrali stranieri, sembrava di tornare al ’92, quando anche a Cividale risuonarono assai vicini i fragori della Jugoslavia che andava in pezzi. Due le presenze di smalto, e la più attesa si è rivelata forse la più deludente. Ivica Bulijan è un regista croato di fama internazionale: lavora spesso con festival e compagnie di altri paesi europei. Ha scelto Una tomba per Boris Davidovic, romanzo dello scrittore di culto per l’area slava, Danilo Kis; e per realizzare la produzione ha messo insieme istituzioni di Serbia, Slovenia e Croazia. Ma l’affabulazione netta di quella scrittura non riesce a prendere corpo sulla scena, la frammentazione vince sul racconto, e il quadro d’insieme è piuttosto faticoso.
Molto bello e accattivante invece il lavoro dello sloveno Oliver Frljic, anche autore del violento Dannato sia il traditore della patria sua. Titolo che viene dal verso finale dell’inno nazionale della ex Jugoslavia, e che ben rende il clima interiore dei cittadini di quella nazione fatta di tante nazioni che alla morte di Tito agì come una centrifuga impazzita. Nella costruzione a mosaico, che pure è capace di tenere un solido filo conduttore, non mancano gli elementi di interesse che i bravissimi attori sloveni traggono senza strafare da delusione e rancore, disperazione e amarezza, rabbia e «perdita dell’innocenza». Recitano e suonano (benissimo, perfino sdraiati in orizzontale), danzano e vibrano. Rendendo giustizia allo spettatore, e alla curiosità che Mittelfest istituzionalmente pone di dialogo, anche quando sembra irrimediabilmente lontano.