Con Juncker, ma senza farsi notare troppo. Per il sì nel referendum greco, ma senza dirlo apertamente. Arrivato al momento della verità, Matteo Renzi sguscia. Il suo tweet di ieri è un capolavoro nell’arte del «dire e non dire»: «Non è un derby tra la Commissione Ue e Tsipras ma tra l’euro e la dracma». Traduzione: votate sì per salvare l’euro, ma senza che ciò comporti un pronunciamento a favore dei falchi del rigore. Quelli che lo stesso Renzi, in un tempo vicino che pare lontanissimo, denuciava a spada tratta.

A porte chiuse Renzi si sfoga con gli intimi e spiega le ragioni delle sue abbondianesche scelte. L’Europa lo ha lasciato solo. Nessuno gli ha offerto sponde nella trattativa con i falchi per costringerli ad abbandonare il rigorismo: soprattutto non la ha fatto Hollande. Il sogno di costruire un fronte antirigore si è rivelato un miraggio, e in queste condizioni il premier non ha né la voglia né il coraggio necessario per sfidare Angela Merkel. Se e quando non sarà più possibile tergiversare e restare al coperto, Renzi non avrà dubbi sullo schieramento dell’Italia.

Tutto ciò non significa che il governo non sia terrorizzato dallo spettro della Grexit. Ufficialmente i sussurri che partono dal ministero dell’Economia e dalla maggioranza assicurano che non c’è nessun pericolo serio. «Siamo esposti direttamente per 12 miliardi, l’1% del Pil», robetta. A palazzo Chigi, anzi, si respira una franca irritazione per l’«allarmismo» diffuso. In realtà né Padoan né Renzi si illudono: se la Grecia esce dall’euro, la speculazione non perderà un secondo. L’assaggio di ieri, con quel 5 e passa perso in Borsa, è più che eloquente.

Mercoledì Renzi, con la dovuta discrezione, farà quindi il possibile per convincere la Merkel a evitare il Grexit. L’argomento che ha disposizone è semplice ma fortissimo: sacrificare oggi la Grecia potrebbe voler dire trovarsi domani con mezza Europa a rischio di essere conquistata dalle forze anti-euro. Ma in ultima analisi la strada che Germania e Ue sembrano ormai decise a seguire, sconfiggere militarmente la Grecia con la vittoria dei sì, liberarsi di Tsipras e solo dopo aver schiacciato i reprobi trattare, andrebbe bene anche a Roma. In ogni caso, solo dopo l’incontro con Angela Merkel il governo si deciderà, e non è neppure certo, ad affrontare il parlamento.

C’è ovviamente un motivo in più a giustificare la decisione del premier di tenersi sotto traccia, evitando prese di posizione aperte e rinviando un confronto con il parlamento. Renzi non vuole e non può apparire alleato di Tsipras, ma neppure vuole cucirsi addosso il vestitino scomodo del servo della Germania e dei falchi. Tutte le opposizioni, di destra e di sinistra, lo aspettano al varco. Sulla posizione di Sel e dell’M5S non c’erano dubbi sin dall’inizio. La Lega addirittura rilancia, con Salvini: «Io ritirerei i soldi anche dalle banche italiane, per dare un segnale all’Europa».

La linea di Forza Italia è più sfumata. Brunetta attacca a testa bassa: «Questa Europa ci costringe a cedere sovranità in cambio di nulla. Tsipras dice di no in ragione della democrazia, facendo decidere il popolo sovrano». Ci sono voci molto più prudenti nel partito azzurro, perché in fondo mica ci si può dimenticare che Tsipras è un «comunista». Ma quando si arriverà al momento di dover prendere una posizione chiara, Berlusconi si rivelerà probabilmente non molto lontano da Brunetta. Affiancare Renzi come unico leader favorevole al sì nel referendum greco (fatto salvo Alfano, leader solo di se stesso) gli costerebbe troppo.

Il Pd di Renzi rischia dunque di apparire come il bastione italiano dei falchi europei, cosa che il premier vuole evitare a tutti i costi. Tanto più che nel suo stesso partito i distinguo non mancano e sono destinati a crescere: «Renzi deve agire per riaprire la trattativa», dice Cuperlo. Renzi non può dunque che coprirsi dietro quella che i suoi definiscono «terza via» e che in italiano si chiama «ambiguità». Fino a che potrà farlo.