Montagne russe per tutti, il Pd trasformato in uno strabiliante parco giochi, il conducente non vuole «fermare il treno delle riforme»: però ormai sembra un trenino dell’ottovolante. Giovedì sera Pier Luigi Bersani aveva suonato la carica ai suoi: se Renzi non cambia le riforme, voteremo no all’Italicum. Ieri mattina, alla lettura dei giornali, colpo di scena: sulla prima del quotidiano la Repubblica c’è Renzi che lancia il contrordine: «Cambiare la riforma costituzionale? Tornare al Senato elettivo? Per me si può fare. L’importante è che si abbandoni il bicameralismo paritario». I costituzionalisti, anche quelli vicini a Renzi, trasecolano. La minoranza Pd, che ha gà iniziato a litigare fra ultrà del no all’Italicum e possibilisti, entra in confusione. «Renzi scopra le sue carte», è l’unico commento autorizzato per lunghe concitate ore.

Dall’altra parte dell’oceano, da Washington dove Renzi sta incontrando nientemeno che Obama, partono fulmini saette e sms. Ettore Rosato, il franceschinian-renziano che alla camera fa le veci del capogruppo dimissionario Speranza, si affretta a correggere il tiro: Renzi, dice, «ha detto con grande chiarezza quello che si può fare e quello che non si può fare», «si può lavorare sulla legge elettorale per quanto riguarda il Senato, che viene eletto come secondo livello cioè dai consiglieri regionali, e che questo è ambito di discussione parlamentare. Come anche le competenze del Senato. Altro è invece la composizione del Senato, frutto di una grande mediazione nei parti e con la Conferenza Stato-Regioni, che ha prodotto questo modello di Senato approvato dalla Camera a dal Senato in misura uguale e quindi non più modificabile». Arriva anche la smentita delle «fonti di Palazzo Chigi». Ultimativa: «Niente scambi, non si torna indietro».

Nel frattempo però il Pd va in tilt. Perché la proposta contenuta su Repubblica, cioè tornare a un senato elettivo, «è tecnicamente impossibile», come spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti, certo non ostile a Renzi, «a meno di non ripartire completamente da zero». Possibile? Le minoranze si dividono fra chi non ci crede e chi ci spera. Fra i primi c’è Alfredo D’Attorre, che si trova in mattinata a dover commentare il colpo di scena a Omnibus, il talk politico della mattina di La7: «La proposta di Renzi significa prendere l’attuale ddl Boschi e dire ’abbiamo scherzato’. E le nottate, e i ’canguri’?». Troppo, troppo bello per essere vero.

Anche perché nel frattempo le minoranze del Pd stanno scricchiolando parecchio, benché Bersani insista a descriverle come «unite e combattive». Un gruppo di «dialoganti» di Area riformista, e cioè bersaniani, non ha gradito le dimissioni di Roberto Speranza: una scelta «da rispettare sul piano personale ma sbagliata sul piano politico». A taccuini chiusi lo si accusa di aver ascoltato i consigli di guerra di Bersani e D’Alema, e non quelli più miti dei deputati coetanei che gli chiedevano di non drammatizzare lo scontro sull’Italicum.

Poi esce allo scoperto il «dialogantissimo» pugliese Dario Ginefra, da molti dato in avvicinamento all’area renziana: «Occorre fare chiarezza. Deve esaurirsi il tempo del millantato credito, il tempo di chi si intesta la rappresentanza di parlamentari inascoltati. Non è il tempo dei bambini soldato, ma dei costruttori di pace». Parole pesanti verso i suoi compagni di corrente, a cui aggiunge un’accusa velenosa: «Essere minoranza non può significare boicottare il lavoro che molti di noi compiono, talvolta silenziosamente, nelle istituzioni e nel partito», «la nostra area è riformista e in quanto tale non può degenerare in derive massimaliste di alcuni rappresentanti di una minoranza della minoranza». Siamo all’accusa di alto tradimento, in sostanza. E la richiesta di un confronto, che arriverà forse mercoledì prossimo. Sul banco degli imputati Speranza ma soprattutto gli «irriducibili» Fassina e D’Attorre. Quest’ultimo annuncia «il suo no anche alla fiducia, nel caso in cui venga posta sulla legge elettorale» e indica Speranza come possibile candidato ’di sinistra’ al prossimo congresso. Naturalmente ce n’è anche per la «vecchia guardia» ormai sulle barricate (circa) contro l’Italicum: Bersani, D’Alema, Bindi, Cuperlo.

Parole grosse, quelle di Ginefra, che Nico Stumpo, coordinatore della corrente, stoppa: «Nessun rischio di deriva massimalista». Ma non basta a coprire l’insofferenza che attraversa l’area bersaniana. E che esploderà se la prossima settima Renzi accetterà le dimissioni del capogruppo, magari togliendosi il gusto di sostituirlo con un suo compagno di corrente. Circola il nome di Enzo Amendola, che ha già accettato di far parte della segreteria del Pd. Se andasse così, sarebbe la replica di una scena già vista: quella di Cuperlo che si dimette dalla presidenza del Pd contro una battutaccia di Renzi, Renzi che lo sostituisce con il leader dei giovani turchi Matteo Orfini. Il quale posiziona la sua area in maggioranza, a sostegno del segretario, nella missione impossible di una sinistra renzista.