Sebbene non sia uno scrittore che si lasci troppo guidare dall’istinto, Ricardo Piglia dà un saggio della ostinata e minuziosa ricerca che anima i suoi racconti brevi già nella descrizione del lavoro di cesello praticata dall’orefice protagonista del racconto con cui apre la raccolta L’invasione, dove si parla di un uomo alla ricerca di un enigma microscopico, inseguito dentro il buio di una galleria sotterranea: «Sembrava un minatore che lavorava in una galleria sotterranea di un universo in miniatura. L’intaglio è un lavoro che si fa senza quasi vedere niente, lasciandosi guidare dall’istinto, mentre si cerca la rosa microscopica sul bordo della pietra, con il polso morbido e leggero».

Finora Piglia è stato conosciuto solo come romanziere: la traduzione, a partire dal 2008, delle opere che lo hanno reso una voce imprescindibile delle letterature di lingua spagnola: Respirazione artificiale, La città assente, Soldi bruciati, Bersaglio notturno hanno rappresentato una scoperta tardiva per il lettore italiano, visto che Respirazione artificiale, il suo capolavoro, è del 1980.

Del resto, Piglia condivide il destino degli altri due principali autori argentini della generazione successiva a Borges e a Cortázar, César Aira e Juan José Saer, a cui solo negli ultimi anni i cataloghi dei nostri editori hanno dedicato attenzione.

Sebbene L’invasione sia il primo libro di Ricardo Piglia, pubblicato già nel 1967, solo in parte è pensabile come un’opera giovanile, perché l’autore stesso ne ha curato a quarant’anni esatti di distanza una nuova versione, rimaneggiando i testi in modo significativo e inserendovi alcuni racconti della stessa epoca, precedentemente apparsi solo su rivista.

È dunque dal libro datato 2007 che è stata realizzata l’edizione italiana proposta oggi da Sur (nella traduzione, non sempre impeccabile, di Enrico Leon, pp. 187, euro 15,00). A

l duplice statuto della sua redazione, questa raccolta d’esordio in parte riscritta nella piena maturità, deve il paradossale effetto che sempre generano i romanzi dello scrittore argentino: più che rivelare le potenzialità di un grande autore in nuce, oggi i racconti assumono quasi l’aria di una summa dei temi, delle modalità narrative e addirittura dei personaggi che caratterizzeranno la narrativa di Ricardo Piglia lungo tutta la sua traiettoria, uniti a una maturità di scrittura assolutamente sorprendente.

Tra i temi ricorrenti e riconoscibili in questi quindici racconti, c’è innanzitutto la dialettica tra Buenos Aires e l’interno del paese.

I protagonisti sono spesso appena arrivati nella capitale dalla provincia, oppure l’hanno fatto in passato per poi ritornare sui propri passi, o ancora, oscillano tra i due spazi, comparandoli o facendosi riflesso di tensioni storiche e sociali più o meno esplicite. Una questione, quella del rapporto tra ciudad e campo, tra metropoli e provincia, che è cruciale non solo in tutta la storia argentina, ma anche nella biografia dello scrittore: nato nel 1941 ad Adrogué, a qualche decina di chilometri da Buenos Aires, si trasferì a Mar del Plata nel 1955 in conseguenza della caduta di Perón, del quale il padre era sostenitore. Arrivò nella capitale dieci anni dopo, per ripartirne nel 1976. Sarebbe poi vissuto a lungo negli Stati Uniti, insegnando a Harvard e a Princeton, prima di tornare definitivamente in Argentina nel 2011.

L’intersezione tra storia nazionale e vicende private è un tratto del Piglia romanziere che si ritrova ampiamente scandagliato anche in alcuni suoi racconti, concentrati su momenti fondativi della storia argentina: succede, per esempio, nello splendido «Gli atti della sentenza», o per quanto riguarda gli anni del peronismo, nel fulminante «Riparazione», il cui protagonista approfitta del caos generato dalle violenze del giugno del 1955 per regolare i conti con un’ex-fidanzata.

Del resto, per molti versi le storie dell’Invasione ruotano spesso proprio intorno a un regolamento di conti, perlopiù, interiore. Talvolta invece, quando dalle pieghe della Storia lo sguardo si sposta verso i suoi margini, la resa dei conti si fa letterale. Margini urbani o della legalità, come nel paio di racconti di ambientazione carceraria che sembrano anticipare l’incursione nei territori del noir di Soldi bruciati.

Al noir Piglia deve molto, non soltanto perché a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 diresse la «Serie Negra», gloriosa collana di genere poliziesco, ma soprattutto perché le sue narrazioni brevi si sviluppano quasi sempre come un’indagine, indipendentemente dal fatto che l’oggetto dell’investigazione sia un delitto, un evento storico o la fine di un amore. E se la concentrazione su un amore appena concluso torna a echeggiare in vari racconti, più in generale la caratterizzazione dei personaggi si affida a un qualche loro tratto ossessivo.

Ossessivi, solitari, e perdenti, i personaggi di Piglia sono – come direbbe Elena Garro – «avvolti nella sconfitta»: vinti in partenza oppure seguiti dal narratore, per un tratto di strada, lungo la via del fallimento. In sottofondo, aleggiano le atmosfere di Juan Carlos Onetti.

Lungo questa galleria di solitarie figure maschili, e del loro infelice vagheggiamento di figure femminili ormai perdute, spicca il battesimo del personaggio di Emilio Renzi, scrittore e alter ego che sarà protagonista in quasi tutti i romanzi di Piglia (il cui nome completo è in effetti per l’anagrafe Ricardo Emilio Piglia Renzi).

Renzi compare qui nel racconto che dà il titolo al libro e in quello che lo conclude, «Un pesce nel ghiaccio», forse il più bello. La storia è ambientata tra Torino e le Langhe, dove Renzi è impegnato in una ricerca sui diari di Cesare Pavese e in una battaglia con il fantasma della donna che lo ha abbandonato.

Come in questo racconto vengono intercalati numerosi passaggi del Mestiere di vivere, così in altri dell’Invasione si ritrovano strategie narrative fondate sull’intertestualità, sull’interpolazione di documenti; altri racconti si presentano, invece, integralmente come trascrizioni di una registrazione su nastro («Mata-Hari 55») o di una testimonianza davanti a un giudice («Il mio amico»). Soluzioni che, a partire da Respirazione artificiale, diverranno quasi un marchio di fabbrica della scrittura di Ricardo Piglia. Lo sviluppo narrativo è qui però più rettilineo, lasciando intravedere l’influsso di quegli autori statunitensi – Fitzgerald, Hemingway, ma qua e là anche Salinger e Kerouac – che sono stati i primi amori letterari dell’argentino.

Sebbene la struttura dei racconti sia meno articolata – o forse, soltanto meno cerebrale – di quella dei romanzi, la linearità di questi racconti è solo apparente. Viene già messa in pratica nell’Invasione, infatti, un’idea della narrazione breve che Piglia avrebbe elaborato, anni dopo, nelle magistrali «Tesi sul racconto» contenute nel saggio Formas breves. La tesi di partenza è che ogni buon racconto narra sempre due storie, ovvero «nasconde un racconto segreto». L’arte di scrivere racconti, sostiene Piglia, «consiste nel saper cifrare la storia-2 negli interstizi della storia-1. Un racconto visibile nasconde un racconto segreto, narrato in modo ellittico e frammentario. L’effetto di sorpresa si determina quando il finale della storia segreta affiora in superficie». Una concezione, questa, che tradisce qualche parentela con la teoria dell’iceberg di Hemingway, ma che Piglia approfondisce esaminando le diverse tipologie di relazione tra le due storie parallele nei racconti di Cechov e di Poe, dello stesso Hemingway, di Kafka, di Borges. Ancora prima delle elaborazioni teoriche, però, la lezione di quei maestri del racconto si era tradotta in un dominio della costruzione narrativa che i testi dell’Invasione mostrano già pienamente maturo.

Come ha recentemente scritto Martín Caparrós, Ricardo Piglia si distingue anche per la lucidità con cui affronta un dilemma difficilmente aggirabile per un autore argentino della sua generazione: come scrivere dopo Borges. «Quando molti tentavano di riprendere o respingere la sua retorica e il suo parco tematico di specchi, sogni e labirinti – segnala Caparrós – Piglia ha capito che il materiale borgesiano più valido era il suo meccanismo». L’osservazione può valere anche per il meccanismo narrativo dei racconti dell’Invasione.

Negli interstizi delle sue storie Piglia cesella un enigma e una tensione sotterranei, li fa espandere intorno al nucleo di un’ossessione che il finale tende a suggellare, più che a sciogliere, lasciando al lettore una domanda in sospeso. E un senso di ineluttabilità: «la cosa più temuta accade sempre», come recita un passo del diario di Pavese citato nel racconto che chiude il libro.