Fondato sul principio strutturale della sequenza cinematografica, l’ultimo, intenso romanzo di Peter Schneider, Gli amori di mia madre (traduzione di Paolo Scotini, L’orma, pp. 312, euro 16,00) ha un incipit fulminante che mette subito in guardia circa il ruolo fondamentale, ma al tempo stesso potenzialmente mistificatore, delle immagini nella rimemorazione del passato: «sulle foto, quelle in bianco e nero dai bordi dentellati, mia madre quasi non si riconosce. E comunque non è la madre che ho nella memoria, una forza della natura a volte dolce, a volte protettiva, a volte profondamente triste, altre volte ancora selvaggia e incontrollata».

L’abbrivio riecheggia, e non a caso, il celebre passo della Camera chiara di Roland Barthes, dove scrive: «solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii».

Tuttavia, nel romanzo in cui Schneider risale il tempo tentando di ricostruire l’immagine autentica della madre, scomparsa a quarantun anni nel 1948, non sono le fotografie a muovere la macchina narrativa, bensì alcune lettere di lei, custodite in una scatola di cartone che senza essere mai stata aperta ha seguito Schneider dal 1978, quando ne entrò in possesso dopo la morte del padre. Rimasta per più di mezzo secolo nella scatola, la corrispondenza invita Schneider a un viaggio a ritroso nel tempo, un viaggio in cui scopre i segreti della propria famiglia e trova l’espediente per raccontare la sua infanzia in tempo di guerra. Fin dall’inizio, una difficoltà: le lettere vennero scritte in alfabeto Sütterlin e dunque ora necessitano dell’aiuto di un’amica per venire decifrate e trasformate poi nel canovaccio del romanzo, un’altra tappa della autobiografia che Schneider cominciò con Rebellion und Wahn. Mein ’68, dove esaminava criticamente il suo passato impegno politico. Dalle carte private della madre, Schneider apprende che la sua pena più grande non ha a che vedere con la guerra, ma con una «spina che ha nel cuore», una spina «che logora la sua vitalità».

Non conta molto per Schneider scoprire che, contrariamente a quanto aveva sempre creduto, suo padre era stato nella Gioventù hitleriana e aveva persino suonato per Hitler nella «Tana del lupo», in Prussia orientale; né conta più di tanto venire a conoscenza del fatto che la madre era ricorsa all’aiuto di influenti famiglie di nazisti per trovare un alloggio a sé e a suoi figli durante la sua drammatica fuga da Königsberg occupata dai russi.

Cronista e romanziere allo stesso tempo, Schneider offre con questo libro un affresco del passato tedesco, in cui i dolori della madre dipendono solo in parte dalla sua condizione di profuga orientale, tra Grainau e Olschatz, Dresda e Berlino, cercando da parenti e amici ospitalità per sé e i suoi bambini. Descritte in modo esemplare, le città ridotte in macerie, le colonne di profughi e di soldati tedeschi, che senza meta si spostano fra le stazioni ferroviarie, e gli ebrei scambiati dalla madre per «ex detenuti» mentre marciano invece verso la morte, rimangono sullo sfondo degli amori della donna e non stemperano la sua incrollabile dedizione all’amante, Andreas. È questo che Schneider scopre essere il vero segreto della madre, la relazione extraconiugale con il migliore amico di suo marito, Heinrich, al quale la circostanza è nota, poiché è la moglie a informarlo nelle sue lettere.

Il sentimento che la donna prova per il regista teatrale, con il quale il marito, direttore d’orchestra, pure lavora, è ricambiato con toni assai più razionali. Spesso in viaggio attraverso i teatri tedeschi, Heinrich e Andreas sono i principali destinatari della corrispondenza della donna, ai quali si aggiungono l’amica Linda, in realtà sua antagonista in quanto come lei innamorata del regista, e altri presunti amanti, tra cui un professore di Dresda. Per incontrarlo la donna non esita a mettersi in bicicletta nel febbraio del 1945 e attraversare il capoluogo sassone sotto le bombe dell’operazione Thunderclap, descritta nel romanzo in modo mirabile.

Consumata forse dalla cirrosi epatica, forse da un’immunodeficienza, o più probabilmente dalla «fatica» e dal «crepacuore» che Scheneider indovina leggendo la corrispondenza, la madre muore quando Peter ha solo otto anni, lasciando al figlio materiale per un romanzo in cui l’amore, anche se impossibile, è «più importante del successo, e del mangiare stesso, perché ogni giorno può portarci la fine, l’annientamento totale». L’immagine che il romanzo restituisce è quella di una madre condannata all’infelicità dal suo idealismo, dilaniata dall’idea stessa dell’amore ma tenacemente convinta che – come scrive all’amica Linda mentre progetta di fuggire con lei in Francia – «è meglio cercare di inseguire un sogno che arrendersi»; ma soprattutto che «l’unica cosa che possiamo opporre alla distruzione» è «la conoscenza dei legami espressi e taciuti tra le anime degli esseri umani, delle forze amorose, vissute o solo sognate, di questo mondo». Parole che Schneider sembra avere fatto proprie, consegnando alla letteratura tedesca una fra le opere più toccanti degli ultimi anni e uno dei ritratti più schietti, tragici e affettuosi di una madre durante il secondo conflitto mondiale.