Centosettantotto voti, anzi 179 perché la campionessa Josefa Idem, appena rientrata dalla malattia, ha sbagliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono mancata». È una maggioranza assoluta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbligatorio raggiungere nella seconda e definitiva lettura della riforma costituzionale che il senato potrà fare a partire dal prossimo 14 gennaio. Se, com’è probabile, la camera non toccherà una virgola dei sei articoli del disegno di legge che dovrà riesaminare entro la fine dell’anno, sessione di bilancio permettendo.

Il governo è in trionfo, ma i numeri dimostrano che i voti dei transfughi del centrodestra sono indispensabili. A partire dal gruppo Verdini, con i suoi 13 senatori ieri tutti presenti, passando per la coppia ex forzista Repetti-Bondi, i tre su dieci del residuo Gruppo Gal fino ai due senatori che non mollano Forza Italia ma neanche Renzi. In tutto venti voti decisivi per scavallare la soglia di sicurezza.

[do action=”citazione”]Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita.[/do]

E graziata da Calderoli, che non ha letto in aula gli sms degli ex barricaderi – il leghista ha rinnovato la minaccia: «Li metterò in un libro, ne ho ricevuti anche dal governo». Alla fine nel partito del presidente del Consiglio solo in quattro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo contrari, Casson astenuto e la senatrice Amati assente. Ma soprattutto è arrivato l’annunciato voto di Giorgio Napolitano, che ha spiegato di non essere intervenuto nei giorni del dibattito «perché mi è sembrato più appropriato». Ma quando si contano i voti, eccolo. L’ex presidente della Repubblica è l’unico senatore a vita a votare, l’altra presente, la senatrice Cattaneo da lui nominata, è contraria alla riforma e si astiene.

Quando entra nell’emiciclo, bastone a destra e borsa da lavoro a sinistra, il senatore Napolitano schiva l’imbarazzante Barani, appena riammeso in aula dopo la sospensione per gestacci, e si dirige verso l’amico Sergio Zavoli. Sta parlando la presidente del gruppo misto, la senatrice di Sel Loredana De Petris che in quel preciso momento legge le prime righe dell’articolo dei costituzionalisti pubblicato ieri dal manifesto. Napolitano gira alla larga e cerca un posto nella prima fila, rapido glielo cede Casini. La ministra Boschi l’ha riconosciuto padre della nuova Costituzione ma avendolo lì governo e Pd si mostrano timidi, prima del voto non corrono a fargli la ruota.

Lasciano così spazio a Verdini, il quale sa come si conquista l’attenzione. L’ex braccio destro di Berlusconi piomba dai banchi in alto a destra dove ha trincerato i suoi e si inventa un omaggio all’ex presidente, un saluto fatto di poche parole e molte fotografie. Nel frattempo tocca intervenire proprio ai verdiniani e prende la parola un senatore qualsiasi. Gli ex squalificati Barani e D’Anna non solo non parlano ma vengono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv.

Quando tocca a Napolitano, che interviene a nome del gruppo delle autonomie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il senatore Scilipoti, disdicevole rappresentante del trasformismo quando il trasformismo era disdicevole. Ormai è l’ultimo dei berlusconiani e piazza sul banco di Napolitano, a coprirgli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Riferimento alla storia del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. I commessi lo braccano, Scilipoti consegna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napolitano attacca. L’aula si fa silenziosa e anche piuttosto vuota, perché già i leghisti sono andati via sventolando costituzioni e olio di ricino, poi quelli del Movimento 5 sfilano in muta protesta per non sentire l’ex presidente. E nel silenzio comincia a squillare un telefono sugli abbandonati banchi leghisti, per cui i primi cinque minuti di Napolitano somigliano a quelli di C’era una volta in America. Fino a che il telefono tace e si può sentire Napolitano parlare di sé stesso, di quello che ha fatto al Quirinale, di quello che aveva detto nel primo giuramento, della commissione di saggi che aveva benedetto. Immediatamente dopo parla Quagliariello che è giusto uno di quei saggi e comincia – ce ne fosse bisogno – con una citazione di Napolitano.

Ma è proprio Napolitano che, inaspettatamente, avverte: «Bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tornare indietro sulla legge elettorale che proprio lui ha battezzato? Un incitamento a tornare al premio per le coalizione? Fioriscono ipotesi, ma non è il caso di immaginare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argomenta ormai da renziano. Questa riforma può non essere perfetta, riconosce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fermato fino a qui «è stata la defatigante ricerca del perfetto o del meno imperfetto». Renzi avrebbe detto: «Si può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto.

A proposito di fare, appena completato il passaggio trionfale della riforma, il governo ha dovuto ammettere che alcune norme transitorie proprio non stanno in piedi. Invece di rinviare alla camera le correzioni, Grasso ha concesso di modificare il testo come «coordinamento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbracciare Napolitano.