Sulle montagne di Collio la temperatura è di sette gradi. Centinaia di metri più a valle, nel piccolo terrazzo dell’ex casa vacanze Cantoni, fa ancora più freddo. Il rumore dei camion che passano lungo la strada provinciale sovrasta il profumo della montagna. Seduto su una panchina, c’è un ragazzo di nome Abimbula, tiene gli occhi chiusi. Ogbemudia si avvicina e parla. Ha 25 anni e viene dalla Nigeria. «Siamo stati accolti da insulti, lanci di uova, sassi – racconta spaventato – abbiamo paura a rimanere qui. Nella mia terra si pensa che l’Italia sia un paese ospitale, ma non è vero, me ne sono andato da una guerra e ne ho ritrovata un’altra», conclude.

Collio è un po’ fuori dal mondo. Siamo a quasi mille metri d’altezza. Per raggiungere Brescia in auto ci vuole un’ora. Il posto più vicino è un paese a cinque chilometri. E quando arrivi trovi un luogo da cui emigrano anche gli italiani. Il viaggio dal Ghana, la traversata del Sahara, lo sbarco a Lampedusa, il trasferimento nell’ex struttura alberghiera «Il Cacciatore». Simon sembra un migrante come tanti. Invece da queste parti lo hanno trasformato in un nemico a cui fare la pelle. «Nel mio Paese lavoravo come muratore ma a causa della povertà ho dovuto andarmene», racconta il giovane.

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Sul corpo conserva il peso delle violenze subite, risalenti alla grande traversata a bordo del camion nelle strade desertiche. «I trafficanti mi hanno chiesto dei soldi, io ho dato tutto quello che avevo, ma non bastava, così sono stato picchiato». Nella cucina della struttura i ragazzi stanno lavando i piatti, tra loro c’è chi, come Yaboah, non ha paura a stare qui in Valtrompia. «C’è la polizia che ci protegge, siamo al sicuro, ma allo stesso tempo mi sembra di essere in prigione», afferma in inglese. Francis è cattolico: «La domenica mi piacerebbe andare a messa, ma non posso uscire», ammette.
Le giornate a Collio non passano, si trascinano in una solitudine inquietante e in un disinteresse piuttosto sconvolgente. I ragazzi dormono sui tre piani della struttura alberghiera. Passano la maggior parte del tempo sul letto, a studiare l’italiano e ad annoiarsi. Il clima di odio che si è instaurato non gli permette di fare altro.
Tra due settimane saranno tre mesi. I diciannove profughi sono arrivati lo scorso ventisette agosto. Nigeria, Ghana, Gambia, Bangladesh i paesi di provenienza. Tutti molto giovani, il più vecchio ha soli 30 anni. Tra loro un imbianchino, un meccanico, un calciatore e addirittura un aspirante giornalista.

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Dopo il loro arrivo si sono susseguiti i giorni della settimana ma l’odio nei loro confronti ha continuato ad aumentare. Il primo settembre, un corteo di 300 persone circondò l’ex casa vacanze, i più esagitati lanciarono addirittura sassi, uno di questi ruppe un vetro ma fortunatamente non ci furono feriti.
Forza Nuova e altri attivisti di estrema destra hanno deciso di presidiare ogni sera il paese, lo faranno fino a quando i profughi non se ne andranno. «Qua non li vogliono – dice l’agente che sorveglia giorno e notte la struttura alberghiera. In paese hanno persino raccolto le firme per mandarli via, una settimana dopo erano oltre 1200, alle quali si è aggiunta pure quella del sindaco, Mirella Zanini.
Al bar dall’altra parte della strada ne parlano come se fossero cose inanimate, divenute protagoniste loro malgrado durante le partite a carte. «Stanno fermi, non fanno nulla tutto il giorno», afferma un anziano. «A loro tutto e ai nostri disoccupati niente», fa eco un altro, alzando le spalle.
Daniele, è un altro avventore del bar, cinquantenne, quasi la stessa età di Giovanni Cantoni, il proprietario dell’albergo che ospita i migranti. «Vivo di lavori saltuari, con la crisi purtroppo sono rimasto senza lavoro – spiega -. Eppure mi sento preso in giro e provo rancore nei confronti di uno Stato che favorisce gli stranieri e non aiuta noi italiani».
I dimenticati dell’ex casa vacanze Cantoni da emergenza umanitaria sono diventati quindi un facile tiro al bersaglio da parte di chiunque fa del colore diverso della pelle una colpa della quale vergognarsene.
Attorno ai ragazzi si è formato un microcosmo di finta normalità. Tra sorrisi tirati e giornate da riempire, al pomeriggio, arrivano i volontari dell’Anpi di Brescia assieme a quelli del Coordinamento antirazzista della Valtrompia, carichi di buone intenzioni e libri di italiano per dare una mano. Recentemente è stato avviato un corso di alfabetizzazione con gli operatori di una cooperativa vicina e i ragazzi hanno già avuto un colloquio con uno psicologo.
La sera, tra momenti di fratellanza e una partita a scacchi, c’è chi prega e chi si rilassa, leggendo un libro in inglese. L’italiano ancora non lo comprendono. Meglio così, visti i cori da stadio ai quali sono quotidianamente soggetti.
Quasi tutti hanno comunque voglia di raccontare e alcuni mostrano i tagli che hanno sulle braccia. I marchi indelebili della prigionia in Libia, nei magazzini che fungono da centri di raccolta prima della partenza per attraversare il Mediterraneo, segni di violenze continuate e perpetrate sino all’approdo sulle coste siciliane.
Quando Unity è sbarcato a Lampedusa la scorsa primavera, non si sarebbe mai immaginato una vita simile. Arrivato insieme ad un gruppo di circa altri trecento africani, oggi è l’unico ad essere finito qui. «Sono qua come rifugiato, vorrei che la comunità di Collio lo capisse. Non sono venuto per creare guai», dice consapevole. Adesso che è arrivato dove sognava, Unity si concede di essere triste e di ritornare per un attimo con il pensiero delle difficoltà che ha superato, alle torture di Boko Haram, dalle quali è fuggito. «Dopo tutto quello che ho passato, non posso avere paura di qualche coro in un Paese amico», afferma invece con sicurezza Kojo. Lui arriva dal Gambia, ha vent’anni e come gli altri ha rischiato di annegare attraversando il canale di Sicilia.
Non tutti a Collio pensano che i profughi siano da cacciare via. «Sono persone come noi che però vanno aiutate», dice Alessandra, una ragazza del paese. Dello stesso parere è anche Stefano, che in piazza Zanardelli, vicino alla chiesa, ha un’attività commerciale: «Il nostro non è un paese razzista» – taglia corto.
La macchina dell’emergenza umanitaria e della solidarietà cerca di procedere come può. Nelle scorse settimane i sindacalisti della Cgil hanno portato ai rifugiati dei vestiti. Insieme hanno poi scritto una lettera nella quale chiedono di seppellire l’ascia di guerra sollevata. Una ventina di righe che iniziano più o meno così: «Siamo qua come rifugiati e vorremmo poter essere utili alla comunità. Non siamo una minaccia per voi».
La lettera dei migranti ad oggi è rimasta un messaggio in bottiglia, in balìa di un mare in tempesta. Sabato, il centro congressi che ospitava la mostra fotografica dedicata ai giovani migranti, si è ritrovato ricoperto da insulti e minacce di morte.
A Collio sono storie, piccoli fatti di cronaca, che finiscono anche sui giornali.
La fotografia di Anthony è servita per esempio a scrivere un articolo. E’ un ragazzo del Ghana, anche lui ospite della struttura e anche lui semplicemente «clandestino» per gli attivisti di estrema destra.