Il caso di Robert Brasillach, militante fascista e scrittore collaborazionista nonché caporedattore del famigerato ebdomadario «Je suis partout», viene ogni tanto riaperto nel martirologio neofascista per essere ogni volta richiuso davanti all’evidenza: il fatto che Brasillach sia stato fucilato dopo la liberazione di Parigi nel forte di Montrouge (6 febbraio del ’45) e che il generale De Gaulle abbia rigettato la domanda di grazia avanzata da intellettuali antifascisti non rientra affatto tra le purghe ideologiche del dopoguerra ma (come documenta un libro di Alice Kaplan, Processo e morte di un fascista, Il Mulino 2003) concerne l’art. 75 del codice francese, «intelligenza con il nemico», avendo lo scrittore accettato che il suo settimanale pubblicasse, a scopo delatorio, indirizzi privati di ebrei e partigiani ricercati dalla Gestapo e dalla Milizia di Vichy. Se oramai nulla quaestio in materia, anche il giudizio sul lascito letterario è stato severo con lui. Scrittore poligrafo, firmatario di una bibliografia sterminata specie per un uomo giustiziato ad appena trentasei anni (la sua opera è raccolta in ben dodici volumi fra il ’62 e il ’66 e curata – ma in maniera selettiva e disonesta – da suo cognato Maurice Bardèche, che fu insieme un grande studioso di Balzac e un immondo negazionista), il tempo ha ipotecato la sua copiosa produzione giornalistica di cui uscì in Italia una sciatta antologia (Brasillach, Ciarrapico 1979) a cura nientemeno di Giorgio Almirante, mentre ha rinnovato l’interesse sia per un romanzo di ardita costruzione modernista (Les sept couleurs, 1939, ora da SE 2019) sia per la memoria generazionale ispirata all’esempio di Péguy e intitolata Nôtre avant-guerre (Ciarrapico 1986).

Come testimonia la pionieristica, scritta a quattro mani con Bardèche e mai tradotta in italiano, Histoire du cinéma, il fascistissimo Brasillach amava gli antifascisti Renoir, Carné, Duvivier e anche questo spiega il fatto che abbia scritto a un certo punto un noir di qualità: Sei ore da perdere (Edizioni Settecolori, traduzione di Alessandro Bernardini, introduzione di Roberto Alfatti Appetiti, pp. 242, € 22.00) che ora esce proponendo in appendice un capitolo dello studio a suo tempo dedicatogli (I sette colori del romanzo, Bulzoni 1973) da una grande francesista, Fausta Garavini. Datato sul manoscritto 12 febbraio-2 maggio 1944, il romanzo compare nel supplemento del foglio collaborazionista «Révolution nationale» tra l’11 marzo e il 10 giugno del ’44, il che vuol dire che l’ultima puntata è posteriore di una settimana allo sbarco in Normandia come alla decisione, da parte di Brasillach, di sottrarsi alla fuga verso Sigmaringen con Céline, Rebatet e i gerarchi pétainisti, e invece di imboscarsi nel Quartiere Latino da dove uscirà soltanto nell’autunno per costituirsi a seguito dell’arresto preventivo di sua madre. Sei ore da perdere è intriso della malinconia tipica dello scrittore di Perpignan e del nerofumo che è il colore dell’epoca. La scena è a Parigi, tra rue des Feuillantines, V arrondissement, e la linea del metrò scandita da colui che nel romanzo parla in prima persona come la più amata tra le filastrocche, Châtelet-Cité-Saint-Michel, Odéon: la sua è infatti una voce autobiografica perché Brasillach, ragazzo del Midi figlio di un ufficiale caduto in Marocco, era arrivato adolescente a Parigi per studiare al liceo Louis-le-Grand e poi filosofia all’Ecole Normale Supérieure, luogo iniziatico dell’amicizia (con Bardèche, con Terry Maulnier) e palestra del precocissimo collaboratore dell’«Action Francaise».

In realtà, la malinconia che sempre segnala una mancanza e un vuoto al presente, qui esala nello spazio che si interpone tra la stessa voce e i fatti narrati. La voce, che sembra parlare a distanza e in mancanza di interlocutori, tra la nebbia e le macerie dei bombardamenti, tra il fumo e i crateri di una Parigi improvvisamente desertificata, è quella un ex prigioniero dei tedeschi a seguito della cosiddetta drôle de guerre, reduce da quaranta mesi di internamento (il sottotenente di artiglieria Brasillach se l’era invece cavata con un anno circa): è di passaggio nella capitale, appena sei ore fra l’uno e l’altro treno, ma ha il compito di cercare una ragazza dal nome stilnovista, Marie-Ange, che è stata per un brevissimo periodo la donna di un suo compagno di prigionia il quale vorrebbe ritracciarla, avere notizie di lei e fargliene avere di sue. Chi la sta cercando ne ha dunque un’idea vaga, ne sa qualcosa solamente de relato ma ne serba tuttavia, per orientarsi, due o tre immagini essenziali: quella di un ragazza misteriosamente attraente, la venditrice di violette che il suo amico invitò una sera al bistrot, e il senso di un essere laconico, già segnato dalla vita verso cui infatti manifesta una cautela di parole e di gesti molto prossimi alla reticenza. La ragazza, che il soldato incontra in un’equivoca pensione (tra le ombre della invisibile e tuttavia incombente Kommandantur e le occhiute attenzioni della Gestapo francese) non soltanto lo accoglie ma gli racconta una vita molto più torbida e dolorosa di quanto l’amico prigioniero non potesse immaginare; tant’è che il romanzo si conclude con l’immagine ambigua di lei, donna irresoluta tra le incognite del futuro e i segni di un passato che non potrà mai essere smaltito. C’è qualcosa di premonitorio nella scrittura medesima di Brasillach, più netta e scarna del consueto, priva della retorica nazionalista che altrove la intacca; ad eccezione, qui nel finale, dell’elegia per un milite caduto in Russia con la divisa della L.V.F., la «Lega dei volontari francesi contro il bolscevismo». Da più parti, a proposito di Sei ore da perdere, è stato fatto il nome di Simenon ma può essere fuorviante perché Brasillach ne ignora il tratto elettivo e dunque la nettezza traslucida dei dati ambientali che si lega a una scrittura implacabile nella sua essenzialità.

(Nel complesso all’altezza è comunque la versione di Sei ore da perdere, a parte qualche svista storico-geografica: per esempio è discutibile sia tradurre semplicemente «la macchia» le maquis cioè i partigiani; sia evocare una popolazione berbera a proposito di «Chleus» che è invece la rifrazione fonetica di Schleus, più o meno «fogne», il nomignolo affibbiato dai parigini agli occupanti tedeschi).

Racconta Francois Mauriac in uno dei suoi Bloc-notes 1958-1960 (Mondadori 1966) di avere visto da lontano lo scrittore subito dopo la pubblicazione dell’ultima puntata di Six heures à perdre: seduto a un tavolo dei «Deux Magots», chiuso dentro un cappotto fuori stagione, lo sguardo vitreo e perso nel vuoto davanti a sé, il volto di Robert Brasillach aveva ormai un colore livido, lo stesso che intride le pagine del suo romanzo terminale.