In una lettera a Theo del 14 dicembre 1885 da Anversa, il trentaduenne Van Gogh esprimeva tutta la sua ammirazione per Rubens, straordinario nel disegnare teste e mani e nel dare colore ai volti con colpi di rosso puro: «Cerco frammenti, come quelle teste bionde di Santa Teresa del Purgatorio. E sto anche cercando una modella bionda proprio a causa di Rubens». La testimonianza di Van Gogh, che pure lo giudicava «superficiale, vacuo e pomposo», ma gli riconosceva al tempo stesso una tecnica «fresca e semplice», è di per sé un ingresso nell’eredità del maestro: versatile quant’altri mai e inimitabile per eccellenza, Rubens è paradossalmente tra i pittori che più sono stati seguiti, ma anche sfidati, da chi è venuto dopo, dai minuti dettagli ammirati da Van Gogh a citazioni, allusioni, ispirazioni, vere e proprie copie, rifacimenti, riusi, risposte, omaggi e parodie. Tutto il campionario delle forme di remake letterari esplorato da Genette nel suo Palimpsestes può essere trasposto sul piano figurativo per quanto riguarda l’eredità di Rubens – anche se oggi è forse più opportuno, dopo gli studi di Julie Sanders e Linda Hutcheon, parlare di adaptation e appropriation; certo è che Rubens è tra gli artisti che più hanno provocato quella che Harold Bloom ha chiamato «angoscia dell’influenza», una voglia di cimento e confronto, su cui si è fondato il processo dell’apprendistato formale e dell’acquisizione identitaria dell’artista moderno.

Una mostra sull’intertestualità rubensiana nella pittura dopo Rubens è in effetti quella che ora propone la Royal Academy of Arts (Rubens and His Legacy From Van Dyck to Cezánne, fino al 10 aprile; catalogo a cura di Nico Van Hout), esplorando l’impatto e le ricadute della sua opera sui pittori successivi (purtroppo solo i pittori) fino a oggi. Se non suonasse troppo tecnico, il termine intertestualità potrebbe senz’altro descrivere il procedere di una mostra nella quale le opere si rimandano a vicenda, in un mosaico di riferimenti interni, più o meno espliciti, che la rendono davvero affascinante, fino a dimostrare, in parallelo con l’assioma di Heinrich Böll che ogni autore è prima di tutto un lettore, che ogni artista è prima di tutto un copista. Il bello della mostra sta non solo nell’ammirare tele come Il giardino d’amore (dal Prado), Il ritratto di gentildonna con nano (da Kingston Lacy, nel Dorset), Santa Teresa d’Avila intercede per l’anima di Bernardino da Mendoza (da Anversa), Caccia alla tigre (da Rennes), Angelica e l’eremita (da Vienna) e la Venere frigida (da Anversa), insieme al trittico del Cristo deposto sulla paglia della cattedrale di Anversa, ma nel vederle ora attraverso gli occhi di Constable e Delacroix, Watteau e Makart, Turner e Böcklin, Daumier e Picasso: un’attenzione lodevole è dedicata a come le opere furono trasmesse e diffuse, attraverso le incisioni e il collezionismo, in tutta Europa, e non solo, fino a scoprire la Crocifissione su una ceramica cinese della dinastia Qing del XVII secolo.

Cosa trovavano in Rubens che non trovavano in Botticelli, Raffaello, Michelangelo e Tiziano i pittori dei secoli XVIII e XIX? Certamente ognuno quello che vi voleva trovare, ma anche una fuoriuscita dalla prigione del classicismo che si dirama verso l’eleganza, la poesia, la compassione, la lussuria, il potere e la violenza (le sei sezioni tematiche della mostra, che potrebbero tradursi in troppo facile concessione a un «Rubens precursore del Romanticismo»). Qui è probabilmente, però, il limite più grande della mostra, che proietta troppo Rubens verso il moderno, come se il paesaggista, il pittore di corte, il ritrattista, il propagandista, il pittore religioso e quello realista (che Rubens fu sempre insieme, anziché per quadri staccati) non avesse comunque sempre alle spalle Leonardo e Michelangelo, Tiziano e Veronese (oltre a Bruegel etc.) in quanto a sua volta collettore di eredità e anello di trasmissione, piuttosto che solo fondatore di forme in uscita. La lezione tardottocentesca di Burckhardt, che vedeva in Rubens «fuoco e verità», in opposizione al formalismo della contemporanea arte italiana, ma anche una perfetta sintesi tra vita e dominio della vita, aleggia di continuo, nella ricerca di un difficile equilibrio tra apprezzamento della forma e valorizzazione dell’energia, dato biografico e genio individuale, esperienza tecnica e forza dello spirito. Pretendendo di dire tutto, con un attraversamento tematico troppo radicale e piuttosto casuale, la mostra rischia di travolgere lo spettatore in un tourbillon visivo che poco aggiunge alle tante mostre recenti di cui il pittore fiammingo è stato protagonista (a Londra al Courtauld Institute nel 2003 e alla National Gallery nel 2005; a Bruxelles nel 2002 e nel 2007; a Brunswick e Lille nel 2004; fino alla grandiosa Rubens et l’Europe del 2013 al Louvre di Lens).

Rubensmania? Eppure Rubens rifatto da Le Brun, Rembrandt, Coello, Murillo, Van Dyck, Reynolds, Gainsborough, Géricault, Lawrence o Cezánne può essere persino più affascinante di Rubens preso da solo, perché le grandi opere d’arte si sedimentano e depositano per la posterità nel percorso anziché in isolamento, divenendo classiche, scriveva Italo Calvino, quando «ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)». Se insomma è vero, con Borges, che «ogni scrittore crea i suoi precursori», sarà altrettanto vero che ogni artista si crea i suoi successori. Questa dialettica, per cui è il genio di Rubens ad aver dato vita a tanti imitatori, ma anche la forza degli imitatori a rendere Rubens tanto geniale, è l’aspetto più interessante della mostra, che alla fine costituisce un’occasione per mettere in discussione le sue stesse premesse: non sarà forse che i grandi autori vanno letti nella trama di relazioni che la Storia ha costruito, evitando schematiche corrispondenze biunivoche e riconoscendo la complessità delle relazioni (come quando Van Gogh riproduce un Delacroix che aveva imitato Rubens senza riconoscere il Rubens che gli sta dietro)? Ridurre tutta l’arte dopo Rubens a un caleidoscopio rubensiano, come se gl’intrecci non fossero plurali e magmatici, è forzatura eccessiva, anche se vedere la Ninfa sorpresa di Manet accanto a Susanna e i vecchioni di Rubens e la Santa Cecilia di Klimt accanto a quella di Rubens sono mirabili sorprese visive.

Opposto a Poussin sulla base di una costruzione culturale elaborata in Francia tra XVII e XVIII secolo, come ha dimostrato Svetlana Alpers, Rubens può finalmente essere riletto a tutto tondo, come acutissimo interprete del suo tempo e audace anticipatore di un altro tempo, ma anche come funzione di lunga durata, produttore di permanenze ed effetti di cui è tessuta la trama del nostro immaginario contemporaneo: «une assemblée où tout le monde parle à la fois», come diceva della sua pittura Delacroix, accusandolo di essere esteriore e superficiale rispetto a Tiziano (salvo trarne ripetutamente ispirazione), ma anche l’Omero della pittura, come voleva Baudelaire, cultore dei dettagli e capace di dipingere qualunque cosa come uno specialista. Corale per eccellenza, nella sua pittura e nella sua ricezione, Rubens diventa una chance di riflessione sulla tradizione, sul suo costituirsi e sulle sue maglie, sui legami tra punti di partenza e punti d’arrivo: per fortuna non solo imitato, ma anche parodiato, come nel divertissement di Kokoshka, Loreley, del 1942, dove il Nettuno che calma le acque di Rubens si trasforma in un polipo con tridente, mentre in primo piano c’è la regina Vittoria seduta su uno squalo cui dà in pasto i pescatori (‘Britannia no longer rules the waves’, commentava l’autore). Non poteva mancare, quindi, una kitchissima appendice, una sala intitolata La Peregrina, a cura di Jenny Saville (fuori catalogo: sarebbe una mostra a sé), dove Rubens viene ricondotto a tutti gli stereotipi di una modernità che lo fagocita senza confrontarsi, pittore del corpo, della sua ridondanza e della sua deformità, del nesso tra violenza e spettacolo, del culto dell’esibizione e della celebrità, come se, attraverso splendidi Bacon, Picasso, Wahrol e Twombly, tutto Rubens si possa finalmente ridurre alla folgorante battuta di Wilhelm de Kooning: «La carne è la sola ragione per cui fu inventata la pittura a olio»