Temo che leggere Sade con una mano sola, come dicevano i nostri nonni, sia diventata un’attività del tutto desueta, ammesso che le fantasie del Marchese siano mai davvero servite a quel nobile e igienico scopo. Inoltre, vi deve piacere quella roba lì, molto imbrattata di merda e sangue, e fino a qui può andare anche bene, ma soprattutto infarcita, anche sul più bello, delle tremende digressioni filosofiche, tra le più prevedibili e ripetitive della storia umana. Forse è venuto davvero il momento di un’antologia ben fatta, capace di pescare le migliori nefandezze separandole da tutto il resto. È in questi vertici di scelleratezza che il prodigio della scrittura sadiana rivela ancora intatta la sua forza, che deriva da un’intuizione decisiva del potere della parola, e in particolare della parola scritta. La quale poggia sempre sulla capacità di immaginazione del lettore, o della lettrice ovviamente, i quali, mentre destinano una delle mani all’ufficio che sappiamo, immaginano ciò che leggono, forse in maniera ancora più perversa e truculenta (chi può saperlo ?) di come lo immaginava colui che ha scritto.
Il contagio di Sade è implacabile: se lo leggi, e immagini ciò che descrive, sei come lui, sei capace di immaginare quello che ti fa immaginare. Se fossero stati scritti con una maggiore saggezza artistica, forse libri come Juliette o le 120 giornate di Sodoma avrebbero davvero innescato una rivoluzione della sensibilità senza precedenti nella cultura occidentale. Provate a immaginare la mente di Sade con il talento di un Turgenev o di un James…
C’è poi il cosiddetto Sade «castigato», ovvero quello che si può leggere tenendo comodamente il libro con due mani. Quando a sessant’anni, nel 1800, pubblicò la serie di lunghi e tetri racconti «morali» intitolata I crimini dell’amore, ben pochi se la bevvero, tanto è vero che ritornò presto in galera per poi essere rinchiuso nel manicomio di Charenton, dove morì nel 1814. Ovviamente, non si tratta di una redenzione e nemmeno, in fin dei conti, di un’ipocrisia. L’interesse di questa parte «castigata» della sua opera risiede semmai nella coerenza con la quale Sade persegue il suo grandioso progetto letterario fondato sul potere della scrittura.
Il Bene ci verrà dunque amministrato con la stessa nefandezza riservata al Male. Per questo supremo tentativo di mistificazione, anche la pornografia si rivela inutile, e Sade la sacrifica volentieri sull’altare delle sue ambizioni. Ne nascono alcune gemme narrative come il romanzo breve Florville e Courval o della fatalità (Elliot, traduzione di Elena Faber, pp. 93,  euro 10,00), che Filippo D’Angelo ha inserito in una edizione parziale dei I crimini dell’amore, acutamente centrata sul tema (molto caro a Sade) dell’incesto (L’Orma Editore, pp. 216, euro 14,00). La prima di queste due edizioni è arricchita dall’ultimo saggio scritto da Riccardo Reim, che ci ha lasciati poche settimane fa. Reim è stato un geniale uomo di teatro e insieme uno straordinario conoscitore della storia del romanzo moderno, e soprattutto dei suoi svariati enfers, sia neri che rosa. Il suo è il miglior viatico per l’illuminante esperienza di questo Sade paladino della Virtù, capace di distillare i suoi nuovi veleni nell’efficace alambicco della forma breve.
La scommessa è tra le più difficili, perché rovesciando il calzino della sua filosofia, lo scrittore dovrà dimostrare che il risultato è identico, come una somma che rimane sempre la stessa mutando l’ordine degli addendi. Qualunque cosa l’uomo pensi o dichiari di se stesso, le forze oscure di cui è ostaggio finiscono per vanificare ogni discorso. È questo il senso profondo di quella fatalità che trasforma la virtuosa Florville nell’autrice dei peggiori delitti che si possano immaginare. Tutto ciò che la giovane donna fa per riparare ai suoi errori e conformare il suo comportamento ai suoi scrupoli, finisce per rivelarsi un pezzo della trappola mortale che finirà per stritolarla. E quando l’«orrore» della verità si mostra in tutta la sua terribile evidenza, all’eroina di Sade non rimane altra scelta che quella di spararsi un colpo di pistola in testa. Come la protagonista di una tragedia arrivata al suo funesto scioglimento, avrà giusto il tempo di tirare le somme: «o vedo il mio amante in mio fratello o vedo il mio sposo nell’autore dei miei giorni, e se guardo a me stessa vedo solo l’esecrabile mostro che ha pugnalato suo figlio e ucciso sua madre».
Ma lo spazio tragico immaginato da Sade, più che da esseri umani in carne ed ossa, è popolato da marionette della sorte, prive di ogni spessore psicologico. Come Justine, modello assoluto e perfetto di tutte le vittime sadiane, anche Florville è incapace di pensare il senso di ciò che subisce. La sua è una catastrofe che non produce nessuna catarsi. E gli ideali virtuosi che dovrebbero consolarla anche nella sventura si sciolgono come neve al sole. Sono solo il rovescio speculare delle lunghe esercitazioni filosofiche dei tanti malvagi libertini ai quali Sade ha dato voce nella sua opera. Con perfida malizia, Sade ci mostra come da un medesimo argomento convenzionale si possano trarre conclusioni ugualmente verosimili per gli apologeti del Vizio e per i difensori della Virtù.
Negli ammonimenti del protettore di Florville, uomo onesto ed assennato, si riconoscono molti degli argomenti favoriti dei suoi nemici. Così, sfruttando una famosa pagina di Montaigne sulle differenze dei costumi umani e la relatività della morale, il libertino ne trarrà la conclusione che tutte le norme sono arbitrarie e disprezzabili dall’uomo superiore. Il virtuoso, partendo dall’identica premessa, potrà invece convincersi che i differenti costumi sono la prova dell’esigenza universale di realizzare il Bene, quali che siano le condizioni dell’esistenza e le tradizioni particolari («Perché i diversi climi, i diversi temperamenti hanno necessità di diversi tipi di moderazione, perché, in una parola, la virtù si è moltiplicata in mille forme diverse, si può sostenere che non c’è virtù sulla terra? Sarebbe come dubitare della realtà di un fiume quando si separi in mille rami diversi»).
I ragionamenti del Sade «virtuoso», insomma, non sono un’alternativa autentica all’apologia del vizio e della prepotenza alla quale aveva assuefatto i suoi lettori. Se le stesse parole, gli stessi concetti possono servire a un’affermazione e ugualmente al suo contrario, significa solo che entrambi i discorsi, quello libertino e quello virtuoso, sono finti, inadeguati a esprimere la tremenda realtà che ci sovrasta, conducendoci tutti a un’identica fine. Se la fatalità potesse parlare, quello sì che sarebbe un discorso rivelatore. Ma la fatalità è muta, intenta alla sua strage perpetua, e forse nemmeno lei, come le sue vittime, sa cosa pensare di se stessa. Ne verrebbe fuori, suprema intuizione, l’immagine di un universo completamente idiota, nel quale non hanno senso né il pensiero né gli eventi che lo smentiscono.
È una lezione preziosa, questa del vecchio Sade, soprattutto in un’epoca in cui le seduzioni del Bene si rivelano ancora più perniciose delle prevedibili e usurate lusinghe del Male. Forse pensava proprio a Sade Kafka, quando nel penultimo dei Quaderni in ottavo scriveva che «il male è il cielo stellato del bene». Ma non c’è bisogno di stabilire qualche filiazione diretta. Più probabilmente sia Sade che Kafka, esseri umani dotati di una superiore consapevolezza, guardavano le oscure stelle dello stesso cielo, l’unico che ci sia stato concesso di scrutare.