E’ sempre molto utile, sebbene talvolta un tantino frustrante partecipare ad occasioni di incontro pubblico in cui si discute dei rapporti tra le diverse forme d’espressione, c’è come la sensazione, oltremodo fugace come si scoprirà poco più avanti, di trovarsi in un paese capace di recepire gli stimoli, le contraddizioni, ma anche quello (tanto o poco che sia è un altro discorso) di vivace di quest’epoca.
Ma forse la Roma di questi anni non è il posto più adatto per veder fruttare qualche idea, qualche prospettiva, qualche sguardo non sul futuro beninteso ma su quello che già è il presente. C’è sempre l’impressione di una palude, di un balletto di stralunati naif che disquisiscono sul nulla, di gente appiedata attorno a un dibattito al massimo da anni cinquanta (italiani, ovviamente, in molti altri posti d’Europa si era già altrove). Capita così di trovarsi ancora in mezzo a gente che discute sostanzialmente se sia meglio il teatro o il cinema, dove ci sia più «verità», magia e altri incanti simili.
Mentre assistevo a questo tipo di discussione, protratta peraltro molto in lungo, mi è venuto da pensare a come l’avrebbe interpretata Brian K. Vaughan, l’autore di Saga (Bao publishing, 14 euro), una gigantesca epopea che ruota attorno al destino di una famiglia in fuga in un universo soverchiato dalla violenza.
Classe 1976, Vaughan ha già un curriculum degno di tutto rispetto. È stato infatti uno degli sceneggiatori di Lost, la serie tv più acclamata dei nostri tempi, quella che forse più di tutti ha saputo coniugare la sperimentazione sul linguaggio narrativo seriale con lo sguardo rivolto verso il grande pubblico. Ed è forse proprio da lì, dalla serie ideata fra gli altri da J J Abrahms che è iniziata una fase nuova nei rapporti tra tv, cinema e scrittura.
Oltre alla tv l’altro grande sentiero creativo di Vaughan è il fumetto, suo è infatti Y: l’ultimo uomo, oltre a numerose puntate verso i classici serbatoi Marvel e Dc Comics.
Con questo Saga sembra davvero che Vaughan abbia voluto dimostrare l’inesistenza di paletti, di linee di frontiera, giocando sul massimo possibile di variazione contenuta in uno spunto classico come quello del ritorno a casa. Il racconto inizia infatti con un parto, avventuroso perché si svolge senza ostetriche e infermieri. Alana e Marko sono infatti da soli ad affrontare questo cruciale momento della loro vita. Fortunatamente va tutto bene, la bambina è sana, ha le alette della madre e dei piccolissimi corni sulla fronte che un giorno diventeranno come quelli del padre. Già perché i due non sono propriamente degli esseri umani, sono gli abitanti di due pianeti in lotta fra loro.
Alana è un fante di prima classe di Landfall, Marko di Wreath. Tra questi due pianeti è in atto da anni una guerra senza esclusione di colpi. La ferrea legge di entrambi questi posti non permette le unioni miste, perciò i due protagonisti hanno dovuto disertare dai rispettivi campi e andarsi a rifugiare su Cleave, «un’antica palla di fango in orbita intorno a una vecchia stella sbiadita».
La cosa interessante da un punto di vista distopico, ma forse non più di tanto visti gli attuali scenari geopolitici, è che questa guerra non si combatte né sull’uno né sull’altro pianeta ma è stata data in «appalto» su regioni lontane, in modo da tener buono quello che gli storici tradizionali avrebbero senz’altro chiamato «il fronte interno».
Dunque su questi due pianeti regna una sorta di pace che è però più vicina a un regime di polizia in cui il dissenso non può essere minimamente tollerato e neanche la commistione fra le due razze in lotta. La razza dominante su Landfall, il pianeta più grosso, è costituita da una casta nobiliare abbastanza sui generis, tratteggiata con un corpo dalle fattezze umane sormontato però da un televisore al posto del cervello. In realtà sono dei robot, hanno gamba e braccia interscambiabili anche se parlano come esseri umani. Il principe si chiama semplicemente IV, è lui ad ordinare che i due transfughi siano trovati e uccisi. Ma non è il solo a volerli morti, anche una signora completamente vestita di bianco con un gigantesco corno sulla fronte ha incaricato un freelancer di eliminarli.
Affrescata dalle bellissime tavole di Fiona Staples, da qui prende il via Saga di Vaughan. Una sorta di esodo famigliare ambientato in un futuro dai tratti molto “presenti”.
Un aspetto tra i più curiosi attorno a cui si snoda questa vicenda principali riguarda il rapporto con la natura e gli animali. Piante e esseri viventi sembrano essersi ibridati in vari modi con la razza umana. Tra le creature incontrate nel primo volume (finora in Italia ne sono usciti 4, tutti pubblicati da Bao publishing), a parte la classica commistione metà uomo metà animale, come la cattivissima e orrende donna con le gambe di un ragno gigante, ci sono creature che conservano tutte le caratteristiche degli animali ma hanno sviluppato capacità finora prerogative degli umani. È il caso del gatto «bugia» in grado di riconoscere se l’interlocutore del suo padrone sta dicendo o meno la verità.
Ricchissima di invenzioni visive e di narrative questa Saga è un altro tassello fondamentale in cui si può sperimentare come la contaminazione tra il fumetto e la serialità sia uno dei terreni più interessanti oggi. Una contaminazione che pretende una osmosi continua dall’uno all’altro, uno scambio di suggestioni. Il fumetto spalancando un campo pressoché infinito alla creazione di caratteri diversi, strani, folli. La serialità offrendo a tutte queste invenzioni delle regole, dei ritornelli e una possibilità di estensione nel tempo e nello spazio tanto appunto da potersi parlare di una Saga.
Un incontro da cui potrà anche nascere una sorta di sintesi cinematografica che sarà interessante tanto quanto saprà mantenere la serietà, la drammaticità di questo universo folle e sordido da cui i due protagonisti, a ragione diremo noi, vogliono a tutti i costi scappare.