Scontri e gas lacrimogeni, in Brasile, davanti al Senato, dov’è in corso il processo d’impeachment alla presidente Dilma Rousseff. La sentenza potrebbe arrivare oggi, dopo un ultimo maratonico confronto tra accusa e difesa. Se 54 degli 81 senatori voteranno contro Dilma, la presidente verrà sollevata dall’incarico e non potrà accedere a cariche pubbliche per 8 anni. Ai 54 milioni di persone che l’hanno eletta per un secondo mandato, nel 2014, verrà allora imposto un governo non scelto dal popolo, capitanato dall’ex vicepresidente Michel Temer, del Partito Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb), ex alleato del Partito dei Lavoratori (Pt).

Temer – «il golpista Temer» per la piazza e per le sinistre – governerà allora fino al 2018, quando si svolgeranno le presidenziali. Il suo gabinetto – interamente composto da maschi bianchi, anziani, corrotti, referenti del grande capitale nazionale e internazionale in un paese di grandi povertà e a maggioranza meticcia – ha già promesso lacrime e sangue per i lavoratori. E un anticipo c’è già stato con il piano di privatizzazioni messo in campo prima di tutto ai danni della impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Dietro la mega-inchiesta Lava Jato, che indaga l’evidente intreccio tra affari e politica dai risvolti internazionali che coinvolge quasi tutti i partiti, c’è stato anche un uso politico, teso a togliere di mezzo soprattutto la gestione progressista che ha tenuto il paese finora: quella del Pt che, pur non esente da magagne, non è certo il primo corrotto.

La statura morale di chi resterà a governare se Dilma perde, infatti, offre ben poche garanzie etiche. La percentuale di inquisiti per corruzione fra i parlamentari e i senatori che hanno fin qui votato l’impeachment, è assai elevata: uno per tutti il presidente del Senato Renan Cailheros, per cui la magistratura ha chiesto l’allontanamento dall’incarico e il carcere. Un’accusa che i senatori della sinistra brasiliana gli hanno ricordato in aula. Temer, che governa a interim dal 12 maggio dopo la sospensione della presidente per 180 giorni, ha dovuto rinunciare a diversi ministri per corruzione.

Un video diffuso dai media – ma non addotto come prova – ha mostrato l’architettura del golpe istituzionale, messo in atto dall’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha, poi inquisito e sollevato dall’incarico. E un’altissima percentuale di candidati alle municipali di ottobre, appartenenti sia al partito di Temer che a quelli di opposizione, è indagata o è stata arrestata.

Durante un’appassionata difesa in Senato, Dilma ha ricordato le vere motivazioni dell’impeachment e nominato Cunha che ha voluto vendicarsi del suo diniego a coprirne le malefatte. La statura morale di Rousseff – ex guerrigliera torturata dalla dittatura militare – è apparsa evidente, e il suo discorso è stato applaudito anche da senatori a lei contrari: «Non ho conti all’estero», ha detto riferendosi a quelli di Cunha. Si è dichiarata innocente dall’accusa di aver truccato il bilancio, ha denunciato la «rottura costituzionale» incombente e chiesto nuove elezioni.

Difficile che abbia però convinto qualche senatore e che le previsioni catastrofiche vengano smentite. Se perde, Dilma ricorrerà alla Corte suprema. Lo ha confermato durante le 11 ore in cui ha risposto alle domande dell’aula. Il disegno, però, è più ampio e interessa tutto l’arco progressista dell’America latina, dove le forze conservatrici sono tornate prepotentemente. L’ex presidente Lula da Silva lo ha messo nero su bianco in una lettera inviata sia all’ex omologa argentina Cristina Kirchner che al presidente Venezuelano, Nicolas Maduro